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Un infaticabile lavoratore nella vigna del Signore

Si potrebbe definire così don Antonio Coluccia, che in quest’intervista ci ha raccontato come si è arrivati alla creazione della “Casa di accoglienza Don Giustino M. Russolillo” a Roma 

 

Un lungo percorso di fede, ma anche tanto amore verso il prossimo e un’instancabile forza di volontà caratterizzano don Antonio Coluccia. 38 anni, figlio di salentini emigrati in Svizzera ed ex operaio dell’Adelchi di Tricase, egli è sacerdote da pochi anni fa ma il suo impegno a favore dei bisognosi era iniziata diversi anni prima, come lui stesso ci ha spiegato. 

Don Antonio, sei stato ordinato sacerdote quasi quattro anni fa, dunque in età adulta. Come è nata questa scelta e quando hai capito che per te era importante occuparti di poveri ed emarginati? 

La mia scelta vocazionale nasce di fatto in seno al mondo del volontariato: nel 1996 ho fondato a Specchia, insieme ad alcuni amici, un’associazione di Protezione Civile con la quale, oltre ad occuparci delle problematiche del territorio (disabili, criticità ambientali e così via), insieme ad altri gruppi di volontari di Miggiano e Montesano Salentino abbiamo partecipato anche a missioni all’estero. In particolare una volta ci siamo recati a Valona, in Albania, dove abbiamo portato camion pieni di viveri e vestiario per la popolazione locale. Ed è lì che è avvenuto un episodio fondamentale per la mia vita. 

Cosa accadde in quell’occasione? 

A Valona ho conosciuto un sacerdote vocazionista, che mi ha affascinato fin da subito per il suo carisma e la sua forza d’animo nell’assistere la popolazione. Ricordo ancora che, scorgendo in me un entusiasmo simile, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “Antonio, il Signore ti sta chiamando”. Da allora ho compreso sempre meglio quale sarebbe stato il mio destino, visto che fin da piccolo sentivo dentro di me questo richiamo interiore -sono stato anche in seminario- e, nonostante i miei genitori fossero inizialmente contrari, e io fossi anche fidanzato, ho scelto di seguire la questa strada che mi ha portato a Roma per compiere gli studi necessari dai Salesiani. 

Roma è la città nella quale adesso vivi e dove da anni assisti i senzatetto. Esattamente dove è iniziata quest’esperienza? 

Tutto è cominciato quando sono stato mandato dai miei superiori nella parrocchia di San Filippo Apostolo in via di Grottarossa n. 193, nel XV Municipio (ex XX), la periferia nord della Capitale. Lì sono diventato diacono e poi sacerdote con incarico di viceparroco (incarico che occupo tuttora) e lì è avvenuto il contatto con quel tessuto sociale molto eterogeneo, dove convivono realtà molto diverse, di benessere ma anche di disagio. Fin dall’inizio ho cercato di capire cosa avveniva in quel quartiere, spostandomi con la mia bicicletta tra le sue vie. 

Qual è stato l’episodio che ha segnato il punto di svolta? 

È stato in occasione di un furto, avvenuto nel 2008 proprio nella nostra chiesa. Una sera d’inverno venne un extracomunitario senza fissa dimora a chiederci delle candele, ma in quel momento non ne avevamo da dargli e gli abbiamo chiesto di avere pazienza fino al giorno dopo, per dare modo a me e ai miei confratelli di procurargliele. Ma lui ha atteso che ci allontanassimo e ha approfittato per portare via le candele che erano sull’altare. Una volta che ci siamo accorti del furto mi sono dato da fare per recuperarle e, con l’aiuto di un altro senzatetto che avevo conosciuto, mi sono fatto accompagnare nella baraccopoli alla periferia del quartiere, nella zona di Fondovalle. E una volta arrivato lì è stata una vera e propria rivelazione. 

Che cosa hai visto? 

Ho visto queste baracche, ognuna con una piccola luce: era la luce delle nostre candele. L’autore del furto, riconoscendomi, mi venne incontro e mi spiazzò dicendomi: “Padre, Dio in chiesa la luce ce l’ha. Io nella mia baracca non ce l’ho!”. Quella sera avevo scoperto una realtà che non immaginavo, fatta di tanta gente -tra cui numerosi italiani- che viveva in quelle drammatiche condizioni. Ho capito che non potevo far finta di niente, che dovevo fare qualcosa subito per dare voce a chi vive ai margini, aiutandoli nel restituirgli una speranza, parlando loro del Vangelo e mettendolo in pratica con semplici ma concreti gesti, prestando ascolto alle loro storie intrise di drammi familiari. 

Come il buon Samaritano della celebre parabola del Vangelo secondo Luca.

Esatto. Quell’episodio nella baraccopoli mi ha illuminato e ho iniziato a programmare una serie di iniziative per alleviare le sofferenze di queste persone. Ho cominciato con la raccolta di coperte, cibo, vestiti e altri beni di prima necessità, chiedendo aiuto a tutti quelli con cui potevo venire in contatto. Ma l’altra cosa importante da organizzare era l’accoglienza: non appena ordinato sacerdote, ho preso una stanza della parrocchia e vi ho collocato dei letti a castello e un divano letto, per poter ospitare -seppur temporaneamente- almeno cinque persone. La cosa inizialmente ha destato un po’ di scandalo perché sembrava quasi che si veniva meno a protocolli già stabiliti, e mi ha creato non pochi problemi. 

Dopo i posti letto in parrocchia, arriva l’idea di potersi far assegnare un bene confiscato alla criminalità organizzata e convertirlo in alloggio per senzatetto. Raccontaci come è andata.  

Occorre premettere che a Roma, nell’area del XV Municipio di cui noi facciamo parte, esistono circa venti proprietà confiscate alla mafia. Occorre dare un segno tangibile, perché la criminalità organizzata si combatte non solo togliendo loro i beni ma riutilizzandoli a favore della comunità, per opere di utilità sociale, come prevede la legge n. 109 del 1996. Così il 5 gennaio 2011 ho presentato un progetto al Comune di Roma, titolare del bene, che il 2 agosto 2012 -il 2 agosto è la data della celebrazione del Beato don Giustino Russolillo, fondatore dei Vocazionisti, ndr– ha deliberato a nostro favore l’affidamento di questa villa di 350 mq con oltre tre ettari di verde sita in via della Giustiniana n. 660 -anche il nome della strada è una coincidenza importante, ndr-, che apparteneva ad un boss della banda della Magliana. 

Così si è giunti alla creazione dell’Opera “Casa di accoglienza Don Giustino M. Russolillo”. 

Bisogna ringraziare soprattutto il cardinale Agostino Vallini, già Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma. Un uomo straordinario, che fin dall’inizio ha creduto in questo progetto e mi ha sostenuto. Nella struttura, i cui lavori di sistemazione sono terminati da poco, adesso sono cinque le persone ospitate, tutti senza fissa dimora che io già seguivo (tra loro c’è anche un pregiudicato di 70 anni che ha perso tutto a causa della droga). Attraverso la nostra rete di contatti cerchiamo come meglio possiamo di provvedere a loro con vestiti e quant’altro, e cerchiamo anche di farli lavorare, in modo che un domani, nella migliore delle ipotesi, potranno tornare ad essere autosufficienti. L’obiettivo ora è arrivare a quindici posti letto entro l’autunno. 

Nel frattempo continua l’impegno per chi vive ancora nella baraccopoli o in strada. 

Certo. Tra vecchi e nuovi poveri, soprattutto disoccupati o separati e divorziati che non ce la fanno con il loro stipendio a provvedere contemporaneamente alla ex famiglia e a sé stessi, a Roma sono oltre 8mila senza fissa dimora (quelli censiti) e negli ultimi due anni il loro numero è cresciuto in maniera esponenziale. Ma la questione non è solo sociale, è politica: il povero non è una problema collettivo, come spesso viene considerato appunto dagli amministratori; il povero è una persona che ha la sua dignità. Nel momento in cui quella persona la dignità la perde, per una malattia, perché ha perso il lavoro o si è separato dal coniuge, occorre fare in modo di restituirgliela. Ecco, la politica deve fare la sua parte per far sì che ciò avvenga. Noi, nel frattempo, cerchiamo di fare quello che possiamo per alleviare le loro sofferenze, ma soprattutto per mantenere viva in loro la speranza, perché il pastore non abbandona mai le sue pecore.