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Paesaggio salentino, prospettive di un ritorno alla “città-giardino”

L’evoluzione, nel corso dei secoli, dell’aspetto del nostro territorio comporta oggi la necessità di scelte che possano coniugare sviluppo e rispetto reale della natura 
 
Il territorio della provincia di Lecce ha mutato più volte aspetto: dalla macchia mediterranea che dalle coste riempiva l’intero Salento nella preistoria, alla cerealicolizzazione del periodo messapico, cui si accompagnavano campi coltivati a maggese fino al Bosco Belvedere e la celebre selva di Serrano, che appunto dal comune del magliese, ricopriva fittamente una considerevole porzione del sud della provincia di Lecce. Un bosco che pareva uscire direttamente dalla fantasia di un romanziere, dai cui luoghi unici scaturivano leggende e miti con la stessa abbondante e incontrollabile frequenza con cui la natura selvaggia forniva agli abitanti dei villaggi medievali di che sfamarsi. Alberi maestosi, come le querce vallonee o il castagno, l’albero biblico della manna, tra le cui fronde trovavano rifugio e nutrimento cardellini e pettirossi, platani e pioppi che costeggiavano le tante zone umide, i “paduli” all’interno dei quali il paradisiaco airone cinerino contendeva il cibo al tarabusco ed al fistione. Canneti e roveti, eriche profumate di umido, nelle cui frondosità le beccacce intrufolavano i loro nidi, pietraie inospitali, dove coloratissimi fiori di roccia venivano mossi dal vento e lambiti dal sinuoso e repentino passaggio dei cervoni e delle lucertole. Tassi e faine battagliavano a terra come allocchi e barbagianni fra le fronde notturne per cacciare i topi di campagna che uscivano all’imbrunire dalle tane per procurarsi il cibo tra i papaveri e la calendula dei campi. 
Nel riarso Salento il Medioevo regalò uno scenario rigoglioso ed unico, con i pochi abitanti delle città che potevano cacciare i cinghiali ed i daini nei boschi, e che percorrevano strade carrarecce scavate nella roccia calcarea, segnate dai centenari solchi paralleli lasciate dalle ruote dei carri. Se prima Atena e Dioniso dettarono ai salentini il ritmo danzante del succedersi delle stagioni, tra le feste della raccolta e della molitura delle olive e quelle legate al magnifico vino rosso, che insanguinava piatti unici di una cucina ingiustamente definita “povera”, il Cristianesimo rimodulò queste credenze, senza mai cancellarle, come invece ha fatto il modernismo più deteriore, la forsennata corsa verso il progresso e l’autodistruzione.
La progressiva umanizzazione del Salento ha purtroppo portato all’inevitabile disboscamento, con gli uomini che cercavano di contendere alla natura brani di terra per coltivare di che vivere, utilizzando quella legna pregiata e profumata non solo per scaldarsi, ma per costruire navi, case, carretti, mobili, staccionate, purtroppo assai raramente sopravvissuti al naturale deteriorarsi della materia legnosa. 
Già nell’Ottocento la superbia del rivoluzionario illuminista volle piegare la natura all’uomo, una natura selvaggia ed ostile che complottava contro l’uomo nato buono, che diventava malvagio per sopravvivere. Gli impianti violenti di viti ed uliveti, la scarnificazione delle cave che dovevano fornire nuova materia per l’edilizia rivoluzionaria, tralasciando la vecchia pietra a secco, troppo saggia, eterna, conservatrice, per sopravvivere alla neoclassicità dei nuovi palazzi che, famelici, divoravano i centri storici, soppiantando le bizantine case a corte, coi loro tetti ad imbrice e quel patio, fucina di una socialità religiosa che l’Illuminismo avrebbe voluto spezzare in nome della nuova religione umana. 
Ove fallì Buonaparte ci riprovò il Positivismo umbertino, gli anni successivi all’Unità d’Italia, dove le foreste e le macchie millenarie furono confinate in riserve di caccia, preziosi scrigni di natura accessibili a pochi privilegiati, le nuove classi della borghesia agiata che la stessa Unità d’Italia aveva portato alla guida della giovane nazione, con leggi che tolsero al popolo usi millenari, grazie ai quali chiunque poteva fruire della ricchezza dei boschi.
Dopo un troppo fugace ritorno ai miti del sangue e della terra, conclusosi con l’effusione del primo nella seconda, rifecondata dai lutti di due guerre mondiali, la campagna salentina, risistemata dalle riforme agrarie e dalla parcellizzazione del latifondo, pareva riprendersi pian piano ciò che l’uomo le aveva tolto.
L’ipertrofia delle città, che si allargavano a scapito delle tipiche campagne extramurali, costruì dagli anni ’50 ai ’70 le brutture di quartieri-dormitori, stuprò i centri storici, deturpò l’unità architettonica che nemmeno lo gnosticismo rivoluzionario si era azzardato a toccare, come il respiro profondo e cupo che precede lo scatenarsi di un urlo distruttore, quello della contemporaneità che vuole togliere al paesaggio quel poco che ne è rimasto e che costituisce la cifra della bellezza della nostra terra. 
Non permettiamolo. Esistono nuove tecnologie, come le strade fotovoltaiche, che consentiranno di coniugare sviluppo e rispetto reale della natura e del paesaggio, non la farsesca ipocrisia della green economy industriale. Bisogna avere consapevolezza di questa bellezza, cantata dai nostri poeti, raccontata di nostri anziani, affinché sia questa e solo questa a salvarci dalla definitiva perdizione: la dimenticanza del passato e della tradizione ed una fede dogmatica ed irrazionale verso la scienza ed il progresso.
 
Vincenzo Scarpello