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Il “Fonte pliniano” di Manduria tra storia e leggenda

Un’antica testimonianza della civiltà messapica in Terra d’Otranto, il cui valore simbolico e religioso era ben noto a Plinio il Vecchio che ne parla nel secondo libro della sua Naturalis historia
 
Il secondo libro della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, annovera tra le più importanti fonti del mondo allora conosciuto quella ubicata in uno dei luoghi più suggestivi della storia salentina, posta nella periferia del regno Messapico, costituendo la guardia contro il nemico tarantino, ossia Manduria. 
“In Sallentino, iuxta oppidum Manduriam, lacus, ad marginem plenus, neque exaustis aquis minuitur, neque infusis augetur”. 
Dal celebre naturalista latino l’antica fonte, luogo arcano di riti ancestrali, prese il nome, essendo ancora oggi ricordata come il “Fonte pliniano”. Proprio all’ingresso del parco archeologico di Manduria, città famosa -come ammetteva lo stesso Plinio- per le sue vigne e per il suo vino, si trova questa località magica, nella quale ci si immerge nei primordi della civiltà salentina. 
Come tutte le principali strutture ciclopiche e megalitiche che avessero una valenza sacra, ha forma circolare ed il cerchio, simbolo di completezza, di finitezza e di centralità, è l’elemento geometrico ricorrente nella struttura, scavata nella nuda roccia. All’esterno è visibile l’antico pozzo circolare, un tempo dominato da un albero di mandorlo sacro, antico simbolo di rinascita, il cui frutto, nascosto da un guscio, è legato alla conoscenza misterica del culto della madre terra. Un albero sacro ai Messapi, che solevano adornarlo di tralci d’oro e di mandorle d’oro allorquando tornavano vittoriosi dalle loro spedizioni militari contro Taranto.
Una leggenda popolare conferma queste pratiche, narrando di una regina messapica che, sconfitta, si gettò con tutti i suoi tesori in un pozzo presso la fonte. Altre fonti riferiscono che i guerrieri messapi, prima della guerra, compivano il rito propiziatorio delle abluzioni sacre nel fonte, per poi andare in battaglia con il favore degli dei. Si racconta che al ritorno da una spedizione vittoriosa fu sottratta ai tarantini una chioccia d’oro con 12 pulcini (evidentissimo e ricorrente simbolo legato al culto della Dea Madre) che vennero nascosti nel fonte, come ex voto per quella gloriosa vittoria. 
Attorno alla chioccia si sviluppò l’altrettanto ricorrente leggenda, secondo la quale, per impadronirsene, occorreva sgozzare nei presso del fonte un bambino o una bambina di non più di 5 anni, oppure posare sul petto nudo di una donna una serpe, che permetterebbe, scomparendo, di aprire il varco nel quale sarebbe custodita la chioccia d’oro. A guardia della fonte sarebbe stata posta dagli dei una cerva bianca (la “cervarezza”), altro evidentissimo richiamo ai culti premessapici della Dea Madre, legati alla purezza dell’acqua della quale la cerva bianca è un chiaro simbolo.
Per accedere nella fonte occorre scendere venti gradini scavati nella roccia, che richiamano nel numero il simbolo della protezione miracolosa, della guarigione, alla fine dei quali si entra nell’antro ciclopico di 18 metri di diametro e di 8 metri di altezza. Le pareti della fonte sono incise con simboli sacri, forse dai sacerdoti o dalle sacerdotesse messa piche, sicuramente dai tanti pellegrini, che sin dai tempi antichi, si recavano in questo luogo sacro, legato nella forma e nel significato alla “Grotta della Poesia” di Roca Vecchia. Tra i simboli più ricorrenti (che meriterebbero un approfondimento a parte) spicca su una parete all’ingresso una croce su un basamento triangolare, che potrebbe tanto richiamare ad una croce su calvario, e quindi un simbolo di cristianizzazione del luogo di culto pagano, quanto ad un simbolo solare, legato proprio a quei culti che da sempre si celebravano all’interno della struttura. 
Al centro geometrico della grotta vi è il fonte vero e proprio, che richiama nella struttura il pozzo superiore, a cui corrisponde, e vi si può accedere all’interno tramite un’apertura laterale. Tramite una scaletta di quattro gradini posta nella parte posteriore, in corrispondenza della vena di acqua che sgorga nel canale che va a finire nel fonte, vi è un’apertura quadrangolare, che accede direttamente all’acqua. Queste due aperture, quella centrale e principale, e quella “servente” quadrangolare, avevano a mio avviso due differenti scopi: mentre la principale serviva per le abluzioni sacre, la secondaria serviva per abbeverarsi direttamente nella vena d’acqua della falda affiorante. 
Un richiamo all’antica divinità pagana a cui i Messapi rendevano il culto può ravvisarsi nel termine dialettale con cui il fonte pliniano è conosciuto dai Manduriesi, ossia “Scegnu”, che a parere di alcuni richiamerebbe il genius loci, il dio o la dea che ancora oggi alberga, nei ricordi e nelle leggende in quell’acqua che sgorga dalla roccia e che non decresce mai di livello, come notava con stupore Plinio. 
 
Vincenzo Scarpello