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Adelchi, la parola ai lavoratori

La protesta degli operai dell’azienda calzaturiera tricasina impone alcune riflessioni. Dalla delocalizzazione alle pratiche poco chiare. Ecco come il lavoro va via dal Salento.

 

Dieci giorni di proteste. Densi, lenti, esasperanti. Sono quelli che hanno sfiancato i lavoratori in cassa integrazione del gruppo Adelchi, quelli che hanno tenuto tutti col fiato sospeso. Perché di manifestazioni se ne erano viste, da quando nel 1999 l’azienda calzaturiera ha iniziato con i tagli al personale. Ma mai così dure, così decise, così emblematiche.
La solidarietà e la dignità operaia hanno ricominciato a ribollire da quando Luca Simone, Cosimo Nicolardi, Gianfranco Bramato, Graziano Pantaleo, Rocco Panico e, prima di finire in ospedale per broncopolmonite, Rocco Annesi hanno occupato il cornicione di Palazzo Gallone, mercoledì 23 settembre. Assieme ad altri 560 lavoratori, i 350 della Crc, i 120 della Nuova Adelchi e i 90 della Gsc Plast, avrebbero dovuto ricevere la comunicazione della data di ripresa dell’attività lavorativa entro il 15 settembre. Così almeno prevedeva l’ultimo accordo firmato il 6 luglio. Ma la storia dell’Adelchi è fatta di infiniti accordi mai mantenuti e di operai che, dopo aver lavorato per oltre vent’anni dietro una catena di montaggio, si sono ritrovati d’un tratto in cassa integrazione.
Il piano di rilancio dell’azienda è atteso da due anni. Si naviga, a quanto pare, in un mare di debiti, trenta milioni, e le banche non concedono più all’azienda alcun prestito. Per questo la richiesta, quasi provocatoria, che Sergio Adelchi ha fatto alle istituzioni di un fido bancario di 15milioni di euro. Soldi necessari per ripartire, ma ripartire da dove? È questo il punto. Gli operai definiscono poco chiare le operazioni dell’azienda. Se è stato ammesso dallo stesso imprenditore di avere un milione di piedi di pelle pronti a trasformarsi in tomaie, per un valore di 3 o 4 milioni di euro, allora non è un problema di commesse. Anzi, i lavoratori sono categorici: “Ricordiamo la scoperta, fatta quest’estate, di commesse del new air system ( il nuovo brevetto che dovrebbe rilanciare le sorti dell’azienda) date da Adelchi ad aziende esterne al gruppo, come l’Aldopar di Casarano, contravvenendo a quanto stabilito negli accordi firmati a luglio scorso, in base ai quali l’avvento di nuove commesse avrebbe dovuto comportare il rientro graduale al lavoro delle maestranze attualmente in cassa integrazione. Evidenziamo ulteriormente -continuano i lavoratori in un loro comunicato stampa- che queste aziende esterne al gruppo stanno realizzando la produzione del nuovo brevetto con i macchinari della Crc, smontati nel marzo scorso, violando nuovamente un accordo sottoscritto in Prefettura”. Il disattendere questi accordi, però, non comporta alcuna sanzione e a pagare continuano ad essere solo i lavoratori.
La politica della delocalizzazione, attuata dall’azienda a partire dal 1990 ma intensificatasi soprattutto negli ultimi anni, è l’altro tasto dolente di questa storia. In Albania esistono tre aziende che fanno riferimento ad Adelchi: la Donianna, la Rozimpeks e l’Albania Shoes Corporation, per un totale di circa 3mila operai. In Bangladesh due altre aziende impiegano 1.500 lavoratori ciascuna, per un salario che si aggira intorno ai 19 euro al mese. Altre imprese sembrano esserci anche in Etiopia. “Pensiamo sia necessario diversificare in questo territorio la produzione -insistono gli operai- destinando una quota di lavoratori alla scarpa di alta qualità e riportando in Italia un percentuale della produzione di medio-bassa qualità, che viene attualmente realizzata all’estero. Questo, nell’immediato e nel medio termine -continuano gli operai-, darebbe la possibilità di riattivare almeno tre catene di montaggio, dando così la possibilità a circa 200 lavoratori di riprendere gradualmente il lavoro. Significherebbe lavorare due settimane al mese e percepire, per le altre due, la cassa integrazione, con un incremento di salario pari a 200 o 300 euro mensili. Per noi ossigeno vitale”.
Proposte nate dal basso, sotto il cielo stellato di Piazza Pisanelli, quando magari il vento ha soffiato forte sulla tenda rossa e i sacchi a pelo dei cinque irriducibili operai in protesta. Se si vuole ripartire i modi ci sono. Ma la verità è che nessuna istituzione ha il coraggio di ammettere che la strada da intraprendere è ben lontana dall’Adelchi, azienda che (lo si ammette sempre a ‘microfono’ spento) ha dimostrato di non essere più credibile.

 

Tiziana Colluto