Si inaugura il Parco Archeologico di Parabita, ma si ripresenta più prorompente che mai il dilemma del ritorno a casa dei 18mila reperti archeologici, conservati tuttora a Pisa
Scorre il tempo, a volte greve, sulle pietre immacolate. Dà loro la voce della terra, quella da cui tutto ebbe inizio una volta, qui. Venticinquemila anni prima di Cristo, l’uomo di Cro-Magnon abbracciò la sua donna e dolce fu il loro sonno insieme, da parabitani. Furono ritrovati anche loro durante gli scavi nella Grotta delle Veneri, che dal 1955 agli anni ‘70 riportarono alla luce tesori inestimabili. Diciottomila reperti. Fecero venire i brividi agli archeologi. Un po’ meno, forse, a chi questi luoghi ha continuato a viverli e ad amministrarli. Perché non se ne comprese bene la portata e così a scavare furono mani forestiere, quelle competenti di Antonio Radmilli e Giuliano Cremonesi dell’Università di Pisa, che, invece, finanziò subito gli scavi. Nel ritorno in Toscana, i due docenti portarono con loro i tesori di Parabita, chiudendoli a chiave nelle teche e nei cassettoni del Dipartimento di Scienze Archeologiche.
Custoditi? Dimenticati? Fatto sta che Parabita non ha conservato un solo sasso del suo patrimonio, né una punta di lancia, né una ceramica, né una semiluna. Un vuoto che ritorna a farsi sentire assordante ora che Parabita sta per tagliare il nastro del suo Parco Archeologico, come fissato per sabato 26 settembre. Sarà una conquista bellissima, ma che rimarrà monca se non verrà completata con il ritorno a casa di ciò che ha fatto la storia e, meglio, la preistoria del Salento. Da quasi quarant’anni qui si attende l’apertura del Museo Archeologico, per cui Aldo D’Antico, direttore dell’Archivio Storico Parabitano, ha già cercato di coinvolgere Banca Popolare Pugliese, Provincia di Lecce e Comune di Parabita. “Sarebbe l’unico modo possibile -spiega D’Antico- per garantire un ritorno senza una successiva ripartenza dei reperti parabitani. Per essere oggettivamente corretti, non ci servono tutti. Le nostre Veneri (nella foto) è giusto che stiano nel Museo Nazionale di Taranto, ma abbiamo il diritto ad avere qui una rappresentanza di quello che siamo stati”. Una rivendicazione forte, com’è giusto che sia. Per ora le acque non si smuovono. Ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Tiziana Colluto