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Uranio impoverito, sempre più vittime del silenzio

328 morti e 3.763 malati: questo è il drammatico bilancio dei militari italiani esposti all’uranio impoverito nel corso di missioni all’estero, a cui è dedicato un convegno in programma il 4 marzo a Galatina 

 

In un mondo in cui, dopo l’affermarsi del terrorismo di matrice islamica, gli equilibri internazionali sono sempre più precari e la minaccia di una guerra ad ampio raggio in Medio Oriente è sempre più reale, migliaia di militari italiani da oltre vent’anni combattono quotidianamente nella loro stessa patria una guerra dimenticata: quella contro l’uranio impoverito, con le cui polveri sono venuti in contatto nel corso di missioni in paesi quali Croazia, Bosnia-Erzegovina, Somalia, Kosovo, Afghanistan e Iraq. 

Una guerra dimenticata, dicevamo, dalle istituzioni, che hanno dapprima negato l’utilizzo di tale materiale bellico da parte dei militari americani (a quanto pare i nostri non l’avevano in dotazione) e che oggi fanno di tutto perché un velo d’oblio copra l’intera vicenda, e dimenticata anche dall’opinione pubblica, a causa di uno “spostamento” di interesse da parte dei media nazionali e internazionali sulle vicende legate alla guerra al terrorismo nei paesi arabi da un lato e al soccorso e all’assistenza di migranti e profughi nel Mare Mediterraneo dall’altro. 

Intanto i nostri militari continuano a scoprire di essere ammalati di leucemia, linfoma non Hodgkin e sclerosi multipla, patologie dovute all’esposizione inconsapevole alle polveri di uranio impoverito senza le dovute precauzioni, precauzioni che non sono state adottate perché ai tempi non erano previste dai protocolli di sicurezza che gli stessi militari erano tenuti a seguire: attualmente sono 3.763 i militari che hanno contratto in servizio una malattia per la quale sono in corso procedimenti legali per il riconoscimento del nesso di causa-effetto da esposizione a uranio impoverito, e 328 sono i decessi accertati (l’ultimo in ordine di tempo è quello del maresciallo della Brigata paracadutisti “Folgore” Mario Mele, i cui funerali sono stati celebrati martedì scorso, mentre Stefania Stellaccio, ex caporal maggiore dell’Esercito morta il 14 gennaio, è la prima vittima donna), quasi il doppio di tutti i caduti nelle missioni all’estero (Nato e Onu) a cui l’Italia ha finora partecipato. 

In questo clima di silenzio, fatto di (poche) ammissioni e di (tante) omissioni da parte delle istituzioni, il merito di monitorare quanto avviene e tenere alta l’attenzione sulla vicenda, diventando un punto di riferimento per le vittime, spetta ad associazioni quali l’Osservatorio Militare, presieduto da Cosimo Tartaglia, che si avvale della consulenza legale dell’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, uno dei massimi esperti dell’argomento grazie al quale 40 sentenze di risarcimento sono passate in giudicato. In particolare l’11 febbraio scorso Domenico Leggiero, uno dei fondatori dell’Osservatorio, è stato nominato consulente nella nuova Commissione Parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito (la quarta in ordine di tempo) varata il 30 giugno 2015 e presieduta dall’onorevoleGiampiero Scanu

Insieme agli esperti dell’Osservatorio Militare, il periodico Belpaese ha organizzato un convegno dedicato alle vittime dell’uranio impoverito, in programma venerdì 4 marzo alle 18 presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura a Galatina. L’incontro, patrocinato dal Comune di Galatina, vedrà la partecipazione del sindaco Cosimo Montagna, dell’assessore comunale alla CulturaDaniela Vantaggiato, di Stefania De Paolis e Gioacchino Di Lillo, rispettivamente referente per la Puglia e delegato dell’Osservatorio Militare, del presidente provinciale della Lilt Giuseppe Serravezza e di parenti di militari salentini deceduti per patologie contratte in seguito a missioni all’estero e causate all’esposizione a polveri di uranio impoverito, come è stato loro riconosciuto al termine di lunghi ed estenuanti procedimenti legali. 

 

Andrea Antonaci e la “sindrome dei Balcani” 

 

Di Andrea Antonaci ci siamo occupati nella copertina di Belpaese del 20 ottobre 2012, all’indomani della sentenza che ha riconosciuto ai familiari del sergente maggiore dell’Esercito un risarcimento di circa un milione di euro, dopo quasi 12 anni di battaglie legali. Andrea, originario di Martano e morto nel dicembre 2000 a soli 26 anni a causa del linfoma non Hodgkin, ha scoperto di essere malato al ritorno da una missione di sei mesi a Sarajevo (era partito il 1° settembre 1998). Intervistato dagli inviati di “Striscia la Notizia” un mese prima di morire, espresse il desiderio di scoprire la verità sulle numerose e misteriose morti dei soldati italiani. 

Il caso allora fece molto scalpore soprattutto per via della giovane età del militare che fino a poco tempo prima godeva di ottima salute, squarciando un velo di omertà che fino a quel momento aveva avvolto le missioni internazionali che avevano visto protagonisti anche i nostri ragazzi. Si venne così a sapere (nonostante i nostri vertici militari lo negassero fermamente) che in ex Iugoslavia i militari USA avevano utilizzato munizioni all’uranio impoverito, ossia lo scarto della lavorazione dell’uranio naturale nel processo di arricchimento destinato alle centrali o per le testate nucleari e riciclato per realizzare proiettili per carri armati e velivoli aerei da appoggio tattico. Questi proiettili distruggono il bersaglio per mezzo dell’energia cinetica e per il fatto che le schegge, una volta penetrate, si incendiano raggiungendo temperature dell’ordine di 2.500°. A seguito dell’esplosione il proiettile brucia brucia e si frammenta in piccole particelle che si depositano entro un raggio di 50 metri dal bersaglio: se si entra in contatto con tali polveri, inalandole o assumendole attraverso acqua o cibo contaminato, esse si diffondono attraverso i capillari sanguigni risultando altamente tossiche e possono dare origine a tumori di vario tipo. 

Andrea Antonaci era un sottufficiale del Genio e il suo servizio prevedeva il recarsi personalmente nei luoghi teatri di scontri a fuoco. La mancanza di misure di sicurezza di cui i nostri soldati non erano dotati in quanto non informati dei pericoli (a differenza degli americani, che ai loro occhi sembravano “marziani” per le tute NBC che indossavano) è stata la causa della contaminazione e della malattia di Andrea e di tanti suoi colleghi. Le testimonianze di altri militari malati e parenti di quelli defunti di fatto coincidono tutte su questo punto: l’assenza di dispositivi di sicurezza. E pensare che in principio le cause delle patologie erano attribuite dai vertici militari allo “stress da sentinella” o post-traumatico e ai vaccini.   

 

Andrea Colella