Lasciano il MARTA di Taranto e giungono al Museo della Preistoria le testimonianze dell’Homo sapiens uluzziano, uno dei primi scoperti in Europa
Tra i tanti beni archeologici che il Museo Nazionale Archeologico di Taranto possiede, buona parte provengono dagli scavi e dai ritrovamenti avvenuti in Terra d’Otranto. Prima che si diffondesse il principio del Museo diffuso, tale da ampliare l’offerta dei beni fruibili dai visitatori in tanti micro-musei sparsi sui territori, era necessario, per esigenze di preservazione dei reperti, di custodia dai furti, e di sottoposizione degli stessi a tecniche conservative attuabili grazie solo a strumentazioni presenti al MARTA di Taranto, che tutti i reperti fossero concentrati in un’unica struttura.
Una situazione che si è protratta per troppo tempo, e per troppi anni, dovuta non solo alla comprensibile ritrosia da parte di Taranto a cedere i reperti ai Musei presso i luoghi dove vennero scoperti, in attesa che venissero messi a norma i tanti stabili (storici e non) destinati dagli enti pubblici territoriali a costituire lo scrigno in cui custodire i tesori del nostro passato più antico e glorioso, ma soprattutto a causa delle eccessive lungaggini burocratiche cui la disciplina dei beni culturali del paese che possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale, altrettanto comprensibilmente comporta.
Tra questi ricordiamo la lunga vicenda dello Zeus di Ugento, lo Zis Batàs messapico ritrovato in circostanze fortuite nel 1961 ed oggetto di un estenuante braccio di ferro tra il MARTA di Taranto ed il Comune di Ugento, che oggi dispone solo una copia di uno dei più straordinari esempi di arte antica della Magna Grecia. In realtà il Salento, terra antica dalle origini ancestrali, vero e proprio omphalos Mediterraneo, territorio da cui la civilizzazione è probabilmente approdata in Occidente dalle terre lontane del Medioriente e dell’Africa, possiede una storia molto più antica ed un patrimonio archeologico di livello mondiale, che siamo obbligati tutti, quasi per un destino iscritto nel sangue salentino, a tutelare, custodire, preservare.
La Grotta del cavallo e l’Homo sapiens uluzziano
I primordi del genere umano descrivono infatti una fase decisiva proprio in una grotta del Comune di Nardò, la Grotta del cavallo, dove si è scoperta la prima forma di Homo sapiens in Europa, l’uomo moderno, che ha soppiantato il più antico uomo di Neanderthal, che si era diffuso nei millenni precedenti in quelle stesse terre. Dall’Africa occidentale, come ha dimostrato un recentissimo studio basato sulla valutazione del cromosoma Y, e non dall’africa Orientale, come originariamente si dava quasi per acquisito (conferma che la scienza non può permettersi di affermare verità, per quanto riconosciute dalla maggioranza della comunità degli studiosi), l’homo sapiens attraversò il Mediterraneo, ed approdò in questo lembo estremo dell’Italia, donde colonizzò l’Europa.
Uno dei luoghi in cui si sviluppò l’iniziale coesistenza tra Neanderthal e Sapiens, fu la cosiddetta Palude del Capitano, località che fa parte del parco naturalistico di Portoselvaggio, in cui l’Homo sapiens poté mettere a frutto il suo maggiore sviluppo tecnico, prevalendo pian piano, grazie ad una superiore neuroplasticità, sulle precedenti specie.
I manufatti in argilla, osso, pietra e ceramica, che sono arrivati fino a noi, grazie alla capacità di questi materiali di sopravvivere nei millenni, erano gli strumenti attraverso cui originariamente l’Homo sapiens uluzziano ben 45mila anni fa iniziò, proprio nel Salento, a dare corso all’evoluzione umana. Prevalendo con la tecnica nella caccia, con la capacità di astrarre, con la creatività e l’ingegno, l’Homo sapiens uluzziano sviluppò una civiltà che culminerà in era neolitica, oltre 40mila anni dopo, a seguito di movimenti migratori seguenti le glaciazioni, col ritorno di comunità umane che dal Mediterraneo avevano colonizzato l’Europa atlantica, divenuta inospitale, nella civiltà megalitica salentina, e nell’epoca dei misteriosi pittogrammi delle grotte costiere.
A Nardò cresce il Museo della Preistoria
Quei manufatti, si comprende bene, rappresentano molto più che dei semplici reperti, oggetto di studio da parte di archeologi ed antropologi, nonché della fruizione da parte di turisti e curiosi che ne vogliono rivedere l’arcaico splendore, ma significano l’origine stessa della civiltà europea, che nasce in una grotta sconosciuta della costa ionica salentina. Se l’Europa vuole riscoprire la sua origine ancestrale deve tornare nei simboli mediterranei, in quei cocci di terracotta, in quei bizzarri ornamenti in osso con cui i nostri progenitori e progenitrici di decine di migliaia di anni fa solevano agghindarsi per fini rituali o puramente estetici.
Oggi quei reperti sono tornati a Nardò, nel costituendo Museo della Preistoria, e si deve cogliere al balzo il profondissimo significato simbolico che questa nuova esposizione comporta per tutto il Salento. Assieme al Museo Paleontologico di Maglie, oggi Nardò svela al mondo i tesori di un luogo ancestrale. Luoghi che parlano di una identità perduta e della quale il Salento oggi inizia finalmente a riappropriarsi.
Vincenzo Scarpello