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Ritrovamenti archeologici delle civiltà messapiche nel Salento

La storia del popolo Messapico, che tanto ha influenzato l’identità salentina (ma non solo: l’usanza di gettare riso sugli sposi risale ai messapi che vi gettavano farro in segno di abbondanza), potrebbe essere divisa in tre fasi, quella dell’inurbazione della Provincia, quella dei conflitti localistici e quella della dodecapoli, fase piuttosto tarda, nata, come si è visto, più per ragioni di comune difesa da un nemico esterno, che per spirito di comunanza di stirpe e di costumi. A sua volta la terza fase può dividersi tra il trionfo della dodecapoli, culminato con la vittoria sui Tarantini, ed il suo declino, causato dalla riproposizione di quei conflitti localistici, abilmente rinfocolati dalla machiavellica strategia tarantina, il cui epilogo sarà poi il definitivo crollo di Taranto e della Messapia, sommersi e devastati dalla potenza militare romana.
La seconda fase è senza dubbio quella sulla quale vi sono meno testimonianze documentali, basandosi la ricostruzione storica esclusivamente su congetture e su ipotesi nate da evidenze archeologiche. Dovendosi trovare più riscontri a tali ipotesi, è assai arduo per lo storico trovare un filo conduttore in un periodo durato oltre duecento anni e che ha visto le comunità che si erano formate dall’unione dell’invasore indoeuropeo con l’altra popolazione che aveva colonizzato il Salento, i Pelasgi, formare una rete di comunicazioni intrasalentina ed espandersi secondo direttrici ben precise, ispirate non solo a criteri sacrali, ma anche a necessità di natura militare e difensiva. Le principali vie di comunicazione erano la Sallentina, che da Taranto portava a Leuca attraverso l’Arneo, la Hdruntina, che da Brindisi portava a Leuca, la Brentyria, che da Brindisi conduceva a Taranto, e la prima strada salentina, la via Acheorum, che da Otranto portava a Taranto e Metaponto. Delle battaglie che insanguinarono il Salento nel corso di questo periodo vi sono solo testimonianze archeologiche nelle fondamenta di alcune città messapiche rase al suolo, come il caso di Muro Leccese.

Un ritrovamento fortunato
Nel 1859, un contadino, nel corso dei lavori di spietra mento del suo fondo, ritrovò i resti di un antico tempio, la cui struttura ed intitolazione testimonia la forte integrazione che si era venuta a creare tra i Pelasgi, che veneravano Medh, la dea Madre ed i politeisti indoeuropei messapi, che accolsero Medh nel loro pantheon, continuando a tributarle venerazione e culto.
Il Tempio di Muro leccese era a pianta circolare, al centro del quale vi era un altare dominato da una colonnetta di mattoni sul quale era posta una statuetta femminile in bronzo. A fianco dell’altare due vasi decorati, uno dei quali riportava la dicitura parziale “HANQUORIANASANANAFRODITANMA” (tradotto dall’alfabeto messapico) e all’ingresso del tempio, una tomba, nella quale era seppellito un uomo sul teschio del quale posava una moneta d’argento di Taranto ed ai suoi piedi una di Terina. Sempre a Muro furono ritrovati alcuni bussolotti di piombo a forma di ghianda inseriti nelle vecchie mura della Città, oggi purtroppo scomparse, che testimonierebbero, a detta del Maggiulli, l’assedio che vide Muro coinvolta in una guerra intestina tra messapi, e che avrebbe portato alla distruzione della Città messapica, tanto che di Muro non vi sarebbero testimonianze nelle fonti greche e romane. Le ghiande in piombo sono proietti da fionda, che confermerebbero l’abilità dei messapi nell’ingaggio del nemico da grande distanza. Le fionde in lana utilizzate dai contadini nelle campagne salentine fino ai primi anni del ‘900 sarebbero il retaggio di tale particolare specialità militare, che assieme ai rinomati arcieri ed alla cavalleria, costituivano la forza dell’esercito dei Messapi.

Da una tomba di Muro alla lapide di Vaste
La modalità di sepoltura introdotta dai messapi vedeva, come si è detto, l’inumazione del singolo o dell’intera famiglia in un unico ambiente, il sacello, all’interno del quale era inciso il nome del sepolto, del clan, o della divinità a cui il defunto affidava la propria anima. Queste tombe iniziarono ad essere riportate alla luce prevalentemente nella seconda metà dell’ottocento, parallelamente all’interesse antiquario che si diffuse nel Regno delle Due Sicilie in conseguenza delle scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano. Le tombe erano molto spesso decorate nelle pareti interne ed il Maggiulli testimonia del ritrovamento di una tomba totalmente dipinta di rosso, il cui colore svanì a causa del contatto con l’ossigeno.
Ancora più interessante si rivela la prima testimonianza della Civiltà messapica scoperta, ritrovata nel XV secolo e della quale il Galateo ne fa menzione nel suo “de situ Iapygiae”, ossia una lapide ritrovata a Vaste, l’antica Baxta, della quale il professor Ciro Santoro ha cercato di dare una interpretazione. Il tentativo di traduzione ha portato a risultati sorprendenti, qualora fossero ulteriormente riscontrati.
Il contenuto della lapide è risultato estremamente interessante perché descrive la cessione di un fondo da parte di un privato alla comunità cittadina, con la garanzia delle principali istituzioni messapiche. Da tale breve elenco emerge un vero e proprio spaccato dell’organizzazione sociale messapica, che rispecchia quelle degli altri popoli indoeuropei, e delle poleis greche.
Ogni città si dotava infatti di due governatori, che legiferavano ed amministravano la giustizia coadiuvati da un senato, probabilmente composto dai capi delle famiglie. Altra istituzione era l’assemblea dei mercanti, segno del particolare riguardo nella società messapica di questa particolare classe sociale, che poteva addirittura esprimere un organo rappresentativo in seno al governo delle città.

 

Vincenzo Scarpello