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Quando i solari fanno nero il lavoro

Qualcuno li ha definiti “i nuovi schiavi”, di certo la loro vicenda getta ombre lunghe sul lavoro nero nei campi fotovoltaici salentini. Vengono dall’Africa, dall’India, dal Pakistan, e sono costretti a montare pannelli fino a ventiquattro ore al giorno. Le loro denunce parlano di controlli preannunciati e possibili infiltrazioni malavitose 
 
“Puta calle! Puta calle!”. Barsiwal parla uno spagnolo stentato, ma a gesti riesce a spiegarsi bene. “Puta calle!”, mima con le mani il “vai via, vai via”. È indiano, da due anni a Lecce, è uno dei più arrabbiati. I dirigenti della Tecnova non hanno usato mezzi termini con lui e i suoi colleghi: “O così, o ve ne andate a casa!”. E quel “così” non è stato affatto una cosa da poco. 
Il montaggio dei pannelli fotovoltaici nei campi del leccese e del brindisino si è retto, in non pochi casi, sulle loro spalle, quelle dei migranti. Dodici ore di lavoro, a volte ventiquattro consecutive, tutta la notte, nel fango, a zero gradi, specie a gennaio. “È stato il mese in cui ci hanno massacrato. Troppo lavoro, troppo”, ci ripete un ragazzo che viene dal Togo. Visi stanchi, a volte rassegnati. Non vedono un centesimo almeno da gennaio. Quando le loro proteste hanno iniziato a farsi sentire, gli spagnoli hanno pensato bene di imbarcarsi sul primo aereo per la madrepatria, lasciando qui solo la rabbia. 
Tecnova è un’azienda che in Italia ci è arrivata al seguito della Ute Ohl e della Proener, società che le hanno affidato in subappalto la costruzione delle distese di silicio a San Pancrazio, Francavilla, Salice, Nardò, Guagnano, Collepasso, Galatina, fino al Capo di Leuca, a Lucugnano, Ortelle, Spongano. Eppure, stando a quanto riferito dalla vicepresidente della Regione Puglia, Loredana Capone, Tecnova è un’estranea agli uffici baresi competenti, visto che i subappalti non sarebbero mai stati ufficializzati e dichiarati. Certo, ora Ute Ohl e Proener corrono ai ripari, si sono offerte di pagare le mensilità arretrate ai lavoratori, forse un modo per salvare la faccia. 
Ma i migranti hanno denunciato. E nelle loro deposizioni sono emersi particolari scottanti. Anche loro sapevano e non potevano non sapere delle condizioni ai limiti dell’umana sopportazione in cui erano costretti a lavorare. Anche loro sapevano e non potevano non sapere del “puta calle”, alle sette di sera, d’inverno, quando ci si preparava per tornarsene e invece qualche capocantiere imponeva di restare, fino all’alba del giorno dopo, così, senza preavviso. Anche loro sapevano e non potevano non sapere che chi si faceva male veniva spedito dritto a casa, di permessi per malattia neanche a parlarne. Gli ingegneri di Ute Ohl e Proener erano con loro tutti i giorni. 
Le storie si intrecciano e sono una lo specchio dell’altra. Gran parte degli immigrati ha superato il timore di esporsi, ha in mano le prove di quanto denuncia: video, foto, contratti mai rinnovati, buste paga fasulle. Già, c’è pure questo. Erano quasi mille i dipendenti di Tecnova fino a febbraio, dimezzati negli ultimi mesi. Tutti sono stati assunti formalmente secondo il contratto dei metalmeccanici, firmato per il primo mese nella sede operativa della società a San Pancrazio Salentino. Laura e Manuela, le due spagnole con cui loro hanno avuto a che fare, li avrebbero assicurati sulla proroga dei contratti. Loro, in realtà, non l’hanno mai vista, non l’hanno mai sottoscritta. Eppure per loro questo è il male minore. Ci mostrano il portafogli vuoto. “Ora ci servono i soldi, poi vogliamo solo andarcene e dimenticare questa brutta storia”. Guai se lo facesse pure il Salento.  
 
Tiziana Colluto