Venuto alla luce in seguito a lavori di ristrutturazione di una casa privata, il luogo ricco di preziose testimonianze storiche di recente è stato anche protagonista sulle pagine New York Times
Lecce è una città che vive sospesa, su una sorta di cuscinetto di terra, detriti e, purtroppo, asfalto sulla sua storia. È come se nulla si fosse mai veramente distrutto, col passare dei secoli, ma solo sovrapposto, a strati. Le tombe messapiche, i ruderi romani, la Lecce medievale, normanna, rinascimentale, angioina, aragonese… chiaramente con i danni che i secoli portano con loro, ma non cancellato del tutto, sempre pronto a tornare alla luce. Anche con un piccolo scavo di relativa profondità. Magari come quello che serve per cambiare un tubo della fogna. Può, quindi, capitare che durante i lavori di ristrutturazione di una casa, sita in via Ascanio Grandi, nel centro storico a due passi da Porta San Biagio, riemerge tanto, e ancora tanto altro, e altro ancora. Una sorta di caccia al tesoro, sempre più entusiasmante, sotto la vigile attenzione della Soprintendenza Archeologica di Taranto, che ricompone le fasi di un passato lontano.
È il caso del Museo Faggiano, un edificio privato riaperto al pubblico nell’aprile del 2008, che racchiude mirabilmente testimonianze archeologiche stratificate nell’arco di oltre 2000 anni di storia. Una scoperta che ha dell’incredibile, come spiega il proprietario dell’immobile, Luciano Faggiano: “Io e la mia famiglia rimanemmo a dir poco sorpresi quando, nel corso dei lavori di ristrutturazione della casa avviati nel 2001, ci ritrovammo a fronteggiare una situazione imprevista, con la scoperta di innumerevoli reperti archeologici sotto il pavimento. Più si scavava e più venivano alla luce le testimonianze del passato. Come una caccia al tesoro, appunto, con testimonianze storiche tutte concentrate in un solo edificio, a ridosso della cinta muraria messapica e medievale della città”.
Sono state trovate cisterne d’acqua utilizzate un tempo come vie di fuga, granai risalenti all’anno 1000, il pavimento di epoca messapica (V secolo a. C.), affreschi cinquecenteschi, varie tombe, un tratto di strada sotterranea che probabilmente collegava l’odierno edificio Faggiano all’anfiteatro romano o al castello Carlo V. E, persino, un pozzo profondo dieci metri dal quale si può attingere acqua proveniente dal fiume Idume. “Un tempo la casa è stata anche un convento di suore francescane -spiega Faggiano- chiuso poi intorno al 1600. In origine, la prima stanza era la corte del convento. È ancora ben visibile l’ingresso originario ad arco, che poi è stato chiuso nel 1609, anno in cui è stata aperta la strada”. Sulla trave della porta frontale dell’ex convento, ora situata al primo piano dell’edificio era incisa la seguente epigrafe: Si deus pro nobis, quis contra nos (“Se Dio è con noi, chi è contro di noi?”).
Ma le sorprese non finiscono certo nelle profondità del suolo. Sulla terrazza dell’edificio campeggia una torretta quattrocentesca, probabilmente di avvistamento, tenuto conto che la sua altezza sovrasta quella delle mura di cinta della città, proprio nei pressi di Porta San Biagio. All’interno della torretta si intravede, a mala pena, un affresco raffigurante un triangolo, una croce e un Tempio… segni che riportano ai Templari e alla simbologia del Tempio di Salomone. Per dirla alla Umberto Eco ne Il Pendolo di Foucault, “i Templari c’entrano sempre”.
Arcangelo De Luca
Museografia dal situ
La particolarità del Museo Faggiano sta nel fatto che è privato, ma che a differenza dei soliti musei privati, partendo dagli studioli quattrocenteschi ad oggi, non è una raccolta di documenti ed oggetti, ma una struttura che è essa stessa la raccolta. Qui la storia si può leggere dalla stratificazione dei passaggi umani che si sono susseguiti e che grazie alla sensibilità del proprietario Luciano Faggiano, coadiuvato dai suoi figli, è potuta emergere dopo anni di duro lavoro di scavo e pulizia dalle superfetazioni a causa delle quali era diventato un normalissimo appartamento alle porte del centro storico leccese.
L’allestimento è dettato dal situ, si sono posti in evidenza i vari ritrovamenti definendo un percorso storico-archeologico in base agli stessi, valorizzando e conservando ogni singola pietra dell’edificio. Se in un primo momento il lavoro è stato autonomo, successivamente, come la normativa italiana richiede, ci si è avvalsi dell’ausilio di tecnici e della supervisione della Soprintendenza ai Beni Archeologici, che ha confiscato i ritrovamenti mobili e consentendo al proprietario di tenere ed esporre un’infinità di cocci di tutte le epoche, dalla ciotola messapica ai vetri romani, dalla ceramica a bande larghe medievale alla ceramica invetriata di primo rinascimento, oltre ad oggetti e monili di ‘minore’ rilevanza.
Peccato soltanto che di questo piccolo museo si siano accorti gli americani e gli stranieri di tutto il mondo e che solo un limitato numero di salentini lo abbia visionato e soprattutto peccato che ogni azione di valorizzazione del privato sia, al solito, contrastata dalla Soprintendenza e snobbata dalle istituzioni accademiche, Università in primis.
P.Ars.