A cinque anni di distanza dalla “rivolta” guidata da Yvan Sagnet poco o niente è cambiato nelle campagne di Nardò. E mentre la Cgil lancia la campagna “Coltiviamo la legalità”, i caporali arruolano i braccianti tramite WhatsApp
Nei mesi estivi il sole batte cocente sulla terra rossa del Salento. E mentre le auto fanno la fila per raggiungere le località marine in cerca di qualche minimo refrigerio, ci sono uomini e donne con la schiena curva a raccogliere pomodori, angurie, uva e i vari prodotti tipici dell’agricoltura di questa stagione.
Si scrive caporalato, si legge schiavitù in una forma non del tutto nuova, quantomeno non sconosciuta, semmai sottaciuta. Nel corso degli anni Nardò è diventato il centro catalizzatore di una problematica che riguarda, senza grossi distingui, tutto il sistema Italia per un giro di affari illegali che si aggira tra i 14 e i 17 miliardi di euro. Ed è una lotta alla sopravvivenza che interessa un po’ tutti, senza distinzione di razza, sesso, religione. Un lavoro faticoso e meticoloso nei campi, anche per 18 ore al giorno, e una paga misera che a volte non tocca nemmeno i 3 euro all’ora.
Il bubbone mediatico scoppia nell’estate del 2011. Yvan Sagnet è un giovane ingegnere originario del Camerun, ha bisogno di soldi per poter continuare a studiare. Arriva a Nardò per la raccolta di pomodori e lo scenario con cui si confronta è desolante, privo di dignità. A Masseria Boncuri gli immigrati di colore vengono letteralmente ammassati, molte volte senza acqua e corrente elettrica. Il malumore prima serpeggia, poi si fa insistente, alla fine esplode nello sciopero. La questione caporalato emerge in tutta la sua drammaticità. Ma purtroppo la piaga non si limita. È una storia che chi lavora in agricoltura conosce benissimo da anni. E coinvolge anche operai italiani, donne e uomini di questa terra.
Per combattere il caporalato la Cgil e la Flai Cgil hanno dato vita alla campagna “Stop al Caporalato – Coltiviamo la legalità”. “La tratta di esseri umani e il caporalato rappresentano il terzo business delle mafie dopo droga e armi -fanno sapere dalla direzione provinciale del sindacato-. Il caporalato non riguarda soltanto i braccianti stranieri: il business della tratta internazionale (con un giro di affari di decine di miliardi di euro) ha creato una condizione di assoggettamento e dumping salariale, comportando l’aggravamento delle condizioni di lavoro, lesivo della dignità umana, tra braccianti stranieri e italiani, senza distinzioni”.
Obiettivo, da sostenere con una petizione da firmare, è la rapida approvazione del disegno di legge 2217 su “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”, fermo da un anno in Senato, con cui dimostrare una concreta lotta allo sfruttamento e all’illegalità. “In una condizione di assoluta emergenza e gravità come quella del 2015 sembrava che questo paese si stesse finalmente muovendo: invece il ddl si è perso nelle cosiddette lungaggini burocratiche. La Cgil continuerà la sua battaglia per una legge che punisca le imprese che ricorrono al caporalato”.
L’ultima novità è l’utilizzo, da parte dei caporali, di WhatsApp per reclutare i braccianti attraverso messaggi in arabo e francese con i quali si concordano anche le paghe giornaliere. Questa è l’evoluzione della complessa organizzazione che gestisce il lavoro nelle campagne di Nardò.
“Dal Governo e dalla Regione solo promesse e nessun intervento concreto”
Il neoeletto sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha voluto lanciare un segnale emanando un’ordinanza che vieta il lavoro dei campi in estate dalle 12 alle 16. Ma basta spostarsi di pochi metri, varcare il confine neretino e tessere rapporti con altre grandi aziende agricole dei comuni limitrofi per vedere svanire ogni forma di limite, regola o controllo. E nemmeno i posti in cui far vivere gli immigrati che stagionalmente raggiungono queste terre per lavorare nei campi sono migliorati: sempre a Nardò è stata abbattuta l’ex falegnameria che ospitava, immersi tra i rifiuti, i braccianti extracomunitari.
Ora nel ghetto dei lavoratori di colore è stato allestito un campo, con servizi igienici, lettini e ottime tende per ospitare un centinaio di persone. Ma gli operai dei campi sono molti di più e la soluzione intrapresa non appare risolutiva in via definitiva. La pensa così anche Rosa Vaglio, presidentessa di “Diritti a Sud”, associazione che opera nelle campagne neretine con un team di professionisti per l’integrazione e la difesa dei braccianti extracomunitari impegnati in estate e vittime del caporalato: “Auspichiamo una soluzione definitiva che arrivi da un tavolo che coinvolga tutti i soggetti coinvolti in questo contesto: dalla Regione al Comune, passando per l’Asl, la Diocesi, le associazioni del territorio, gli imprenditori. Magari con un confronto che parta sin da settembre per arrivare pronti per la prossima estate, evitando magari di ritrovarsi a combattere con la prossima emergenza”.
Per questo la Regione Puglia starebbe valutando la possibilità di ristrutturare un edificio con servizi adeguati, in grado di ospitare in modo civile almeno 300 persone. Intanto la consigliera regionaleRosa Barone (M5S), prima firmataria della proposta di legge per il contrasto del caporalato e del lavoro non regolare, sì è espressa molto duramente contro la mancata attuazione del protocollo interministeriale firmato da sei Regioni tra cui la Puglia: “A più di un anno dai tragici eventi che hanno coinvolto la Regione Puglia e dalle morti di lavoratori sfruttati dei caporali, nessuna misura ha fatto seguito alle numerose conferenze stampa e belle parole spese. Il Ministero dell’Interno blocca i fondi -prosegue Barone- e parla di problemi burocratici. In tutto questo l’emergenza dei ghetti persiste, soprattutto nel foggiano e nel Salento; inoltre non è stata intrapresa, come sbandierato qualche mese fa, nessuna azione mirata con strumenti concreti e coordinati, visto quello che continuiamo a leggere dalle fonti di stampa, non è stata rinnovata la convenzione con Emergency per il 2016”.