Quello che si vede nella fotografia è parte di ciò che rimane oggi di un’antica struttura in tutto e per tutto simile ad un dolmen, situata il località Santa Barbara a Giurdignano. Le testimonianze del suo degrado nel tempo e della sua distruzione (per la quale nel marzo scorso è stata presentata denuncia ai carabinieri di Otranto) hanno fatto venire a galla dubbi e posizioni nettamente contrapposte sulla sua stessa natura di dolmen. Un giallo che solo la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici potrà chiarire
Foto di Avanguardie
Retaggi di riti sacrificali, monumenti funerari, simboli propiziatori, epicentri magici tellurici e ancora lasciti celtici, egizi o addirittura testimonianze di Atlantide. Non è svelato completamente l’enigma che avvolge i dolmen e i menhir, presenti con tutto il loro potere fascinatorio anche in Puglia, dove se ne contano 102. Solo il territorio di Giurdignano ne ha ben 25: tanto gli è valso il nome di “Giardino megalitico d’Italia”. Proprio questo comune è da qualche mese al centro dell’attenzione per il lento degrado (prima) e la distruzione (poi) di un sito noto come “dolmen Santa Barbara”.
Dalle parole dei suoi testimoni oculari, i termini di una vicenda tanto amara quanto controversa. Emanuela Rossi e Salvatore Inguscio, i protagonisti, sono guide ambientali escursionistiche e lavorano da diversi anni nel territorio pugliese con il loro studio ambientale “Avanguardie”. Come ci raccontano “la segnalazione di questo dolmen, insieme ad altre evidenze storico archeologiche è stata fonte di ispirazione per inventare trekking ed escursioni che toccavano punti più o meno noti di un territorio molto interessante. Lo scorso anno siamo ritornati per un sopralluogo e con rammarico abbiamo notato che la struttura, di probabile natura dolmenica, era stata danneggiata. La parte superiore costituita da una potente lastra che copriva la camera era inclinata e sfregiata da pietre: era evidente come non il vento o la pioggia, ma il deliberato intervento dell’uomo avesse voluto deturpare quella antica testimonianza”.
È cosa nota come, a volte, per l’uomo comune, il patrimonio di un luogo sia avvertito più come un limite per i vincoli che pone o come un obiettivo sensibile da aggredire, piuttosto che come reliquia temporale, eredità morale e culturale da affidare alle future generazioni. Ma la sorpresa per gli estimatori del posto ha riservato un epilogo ben più mortificante. Emanuela ci racconta che “nel corso dell’ultimo sopralluogo, risalente a marzo di quest’anno, il dolmen non c’era più. L’intervento dei carabinieri di Otranto, a seguito della denuncia da parte dei membri di Avanguardie (presentata in data 22 marzo), non ha potuto che accertarne la distruzione definitiva: a testimonianza della storia rimaneva qualche pietra spaccata di fresco e utilizzata per segnare i confini dei campi circostanti. E tracce di un mezzo meccanico sulle rovine del dolmen”.
Il gesto di un balordo? L’atto premeditato per faccende di (s)comodo? Le ricostruzioni sono state diverse e probabili, ma su ogni cosa ha dominato l’attesa che la segnalazione alle Autorità, all’Amministrazione e alla Soprintendenza portasse ad una svolta nelle indagini, anche ai fini di un’azione legale concreta. Ora, il punto che ha mosso i testimoni a rendere di pubblico dominio il “fattaccio” è stato proprio l’inutile trascorrere del tempo. “Non è ricerca di sovraesposizione mediatica -aggiunge Emanuela Rossi-, ma desiderio che su una vicenda oscura e inquietante come la distruzione di un bene pubblico si riaccendano i riflettori e non cali il sipario del silenzio e dell’indifferenza. Andremo a fondo: se non sarà possibile acciuffare i responsabili, sia almeno ricostruito il piccolo monumento!”.
Nel tam tam di rimbalzi e sotto al fuoco incrociato delle dichiarazioni, interviene un’ulteriore fatto. Dal Comune di Giurdignano giunge la posizione ufficiale: nel sito in questione non è mai esistita testimonianza di un dolmen. Adesso solo la perizia e la professionalità del reparto archeologico della Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici per le province di Brindisi, Lecce e Taranto -che per il momento preferisce non esprimersi- porterà ad una svolta che forse recherà giustizia alla “pietra del mistero” (e dello scandalo).
M. Maddalena Bitonti
Sulle tracce dei megaliti scomparsi
Dolmen e menhir sacrificati sull’altare dell’espansione urbanistica e della non conoscenza. Così è scomparsa la gran parte dei megaliti del Salento
“Se si tiene presente che la scomparsa di tanti menhir si è verificata in un lasso di tempo relativamente breve, il fatto non può non suscitare seria preoccupazione; e io mi permetto di richiamare ancora una volta sul fenomeno la particolare attenzione delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio storico, monumentale e culturale della Patria, in modo speciale della Soprintendenza alle Antichità della Puglia e del Materano. Penso d’altra parte che la conservazione di questo nostro patrimonio sia un compito da non trascurarsi neppure da coloro cui incombe la responsabilità delle amministrazioni comunali. Trattasi di cimeli singolarissimi per vetustà e struttura”.
Sembrano righe scritte oggi, eppure risalgono al lontano 1956, anno in cui Giuseppe Palumbo ha pubblicato il suo studio sul Salento Megalitico. Un atto di denuncia datato e quanto mai attuale, in grado di fissare le responsabilità dietro la distruzione di molti dolmen e molti menhir. Non è semplice tracciare una mappatura dei megaliti scomparsi, molti non sono mai stati neppure censiti. Eppure, un punto di partenza c’è. È lo studio effettuato, a partire dal 1893, da Pasquale Maggiulli, che inizia la sua ricerca proprio da Giurdignano, culla di sette dolmen, di cui tre già sgretolati. Il Peschio primo fra tutti, a cui si sono aggiunti lo Sferracavalli e il Cauda. Del Chiancuse, invece, la lastra orizzontale è crollata almeno dal 1957. Più a sud, a Castro, a metà ‘900 era già classificato come “inesistente” il secondo dolmen del bosco Sgarra, rinvenuto nel 1910.
Storie a cui si aggiungono le “non storie” più recenti, dal dolmen Cola-Resta di Melendugno, spazzato via per costruire un muro di cinta, al Monte Culumbu di Cocumula, a quello della Madonna dell’Itri di Santa Cesarea, al lastrone triangolare di 3 x 2,5 m. di contrada Pozzelle a Zollino, fino ai dolmen Chianca, Canali e Muntarrune, in agro di Maglie, praticamente collassati al loro interno.
Il copione s’è ripetuto identico, forse anche peggio, per i menhir. Fra i 96 di cui il Palumbo aveva notizia, 79 figuravano nell’elenco descrittivo pubblicato nel 1916 dal De Giorgi, che ne dava per scomparsi già 14, mentre ben 28 andarono distrutti dopo la compilazione dell’inventario. Anche qui, l’elenco è lungo e articolato. Le maglie nere, però, spettano ai comuni di Martano e Muro Leccese. È così che negli anni ’50 si arriva a contare appena 50 menhir in provincia di Lecce, di cui solo 39 conservati nella loro forma integrale. Pietrefitte sacrificate per far posto a nuovi fabbricati e strade, come a Zollino e Otranto; abbattute perché urtate dai veicoli, come per il Trisciole di Gagliano del Capo; frantumate nella ricerca leggendaria di tesori nascosti, secondo una credenza molto diffusa, come nel caso dei menhir Staurotomea e Grassi a Carpignano. Oppure per semplice gusto vandalico. O ancora perché consumate dal tempo. E negli occhi rimane quell’immagine di Santu Lasi a Cannole, un gigante piegato ormai dal 1995.
Tiziana Colluto