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Il Ciolo, un canyon non più nella rete

Il Consiglio di Stato ha bocciato senza mezze misure il progetto di messa in sicurezza della parete rocciosa attraverso l’utilizzo di chiodi e reti metalliche, per il quale erano stati stanziati 1 milione e 500mila euro 

 

Stop a reti metalliche, chiodi e travi di ferro conficcate nel costone roccioso del Ciolo. Il Consiglio di Stato nei giorni scorsi ha accolto così due ricorsi, rispettivamente, della Sovrintendenza di Bari e di Legambiente con cui si annullano le sentenze del Tar che, nel corso degli anni, avevano legittimato gli interventi per complessivi 1 milione e 500mila euro volti alla messa in sicurezza contro il dissesto idrogeologico. 

Ma riavvolgiamo il nastro di questa storia. Fine febbraio del 2010: viene approvato il progetto esecutivo per mettere al sicuro bagnanti e turisti dal rischio crollo della falesia del Ciolo, una prima azione da 500mila euro con finanziamenti provenienti dai fondi FESR 2007-2013, a cui si è aggiunto successivamente un intervento più corposo da 1 milione di euro con fondi CIPE. Ed è proprio su quest’ultimo punto che Legambiente ha puntato i fari: disgaggio di circa 6 blocchi di roccia, rete metallica in funi di acciaio ad alta resistenza dall’alto verso il basso; sommità ed estremità laterale del telo metallico fissate al terreno attraverso ancoraggi a barra rigida. Sostanzialmente una enorme gabbia intorno ad uno dei punti più caratteristici e straordinari del paesaggio salentino, set privilegiato di molti film, ma soprattutto scrigno preziosissimo della biodiversità e della natura del territorio.

E da allora è iniziata una battaglia legale che ha visto impegnati, su versanti opposti, Comune di Gagliano del Capo, in cui ricade questa autentica meraviglia, Legambiente e Sovrintendenza. In un primo momento, il Tribunale Amministrativo ha rigettato le richieste provenienti dall’associazione ambientalista che lamentava l’assenza, nel progetto esecutivo, di alcuni elementi fondamentali come la Valutazione d’impatto ambientale, la variazione urbanistica e l’autorizzazione paesaggistica.

Nel 2015, poi, i pm Antonio Negro ed Elsa Valeria Mignone avevano predisposto il sequestro dell’intera montagna a picco sul mare. Nelle scorse settimane, infine, il Consiglio di Stato ha detto la sua sulla vicenda, riconoscendo alcune obiezioni presentate da Legambiente contro il provvedimento dell’amministrazione allora guidata da Antonio Buccarello. In particolare la mancata partecipazione dell’Unione dei Comuni del Capo alla conferenza di servizi finalizzata al rilascio della doverosa autorizzazione paesaggistica; il mancato rispetto delle prescrizioni dettate dalla Soprintendenza in conferenza di servizi; la mancata convocazione di una seconda conferenza di servizi al fine di acquisire il parere definitivo di tutte le amministrazioni interessate. Con questa solenne bocciatura, ora, la procedura amministrativa va rifatta da principio.

 

Le ragioni della sentenza

 

I consulenti tecnici della Procura che hanno stilato una relazione su quel progetto hanno sostanzialmente bocciato ogni forma di intervento nella maniera in cui era stato pensato. I geologi torinesi Giancarlo Bortolami e Bianca Saudino Dughera, a cui era stata affidata la consulenza, non hanno usato mezzi termini. Quell’azione di ingabbiamento del Ciolo non s’ha da fare: il versante che doveva essere destinatario dall’intervento risulta potenzialmente interessato da locali e superficiali fenomeni di instabilità, che non possono compromettere la conservazione del sito, come invece dichiarato in progetto, e che sembrano non giustificare la scelta di applicare la rete sulla quasi totalità delle aree indagate. 

 

Alessio Quarta