Cerca

I menhir: l’evoluzione neolitica della religione mediterranea

Menhir o pietrefitte, una presenza costante nelle nostre campagne, nei nostri paesi, un simbolo fortissimo di caratterizzazione identitaria, che ci distingue dal resto dell’Italia accomunandoci agli onphaolos spirituali del Mediterraneo, Creta e Malta, il Sud della Spagna e l’Anantolia occidentale ma anche la Francia e l’Inghilterra, che vissero la Preistoria in forme antropologicamente differenti rispetto a come fu vissuta nel Mediterraneo, culla e crocevia della Civiltà Occidentale. Questa comunanza mediterranea che si può cogliere nelle pietrefitte è un elemento straordinario a livello storico e religioso, dal momento che presuppone una identità spirituale fatta di liturgie, di conoscenze religiose e di sentire metafisico, che anticipò le stesse religioni fluviali, nella cui culla gli storici fanno risalire l’origine della civiltà.
È straordinario pensare che mentre nel resto del mondo gli uomini conducevano ancora una vita da buon selvaggio, sotto i nostri piedi, nel Salento, nasceva la civiltà occidentale, in un unico afflato spirituale con Malta e Creta, i luoghi leggendari dei poemi epici. Ed è altrettanto straordinario il modo con cui questa primordiale religione si sia diffusa su imbarcazioni preistoriche, probabilmente zattere o tronchi di legno scavati, che collegavano uomini ed idee molto prima che gli egiziani scoprissero le barche di papiro. Ed è proprio in queste “pietre lunghe” (appunto men=pietra hir=lunga, termine bretone) che si può cogliere a livello simbolico il significante spirituale di una terra, la cui muta fissità appare eternata in questi blocchi litici, che i primitivi cavavano dal cuore della terra e ponevano in luoghi ben determinati, secondo un logica ben precisa, che sfugge alla razionalità dello studioso moderno, per entrare in ambiti dove il mistero tocca i suoi più profondi primordi.
Differenti sono infatti le teorie circa la natura e lo scopo di queste pietre. Secondo un’interpretazione maggioritaria esse rappresenterebbero l’unione spirituale del cielo e della terra, presupponendo quindi un’evoluzione della spiritualità primitiva, dapprima limitata alla natura, e che, con un maggior tempo a disposizione per i primitivi, li induceva a sollevare gli occhi al cielo per cercare di comprendere gli imperscrutabili profondità degli spazi siderali. La dea Madre non era più sposa del vento o del Signore degli animali. Era la sposa del Cielo infinito, una divinità maschia che fecondava la madre con la pioggia latrice di vita (soprattutto per gli uomini che non avevano ancora scoperto le virtù dell’irrigazione) ed i menhir ne rappresentavano appunto la possanza virile. Rea sposa di Saturno (per utilizzare la metafora della cosmogonia esiodea) che genera il padre di tutti gli dei, Giove, divenuto “pietra” ed allevato dalla triplice raffigurazione della dea, che non abbandona mai i suoi figli, rappresentata dalla capra Amaltea e dalle sue sorelle Io ed Andrastea, un evidentissimo richiamo alla triplice raffigurazione della dea mater paleolitica. Giove, che incarna la forma fecondatrice della Natura, detronizza dai cieli il caos primordiale rappresentato dal padre Saturno, privandolo con un falcetto della sua virilità. Ma proprio il padre degli dei, Juppiter, El, Djv, Bes, inizia a soppiantare il culto della Madre Rea, altrimenti conosciuta come Iside, Cibele, Demetra.
La tipologia costruttiva di tali steli sarebbe ispirata alle stalattiti sacre delle grotte, il fenomeno carsico probabilmente più evocativo per i primitivi, che in esso vedevano il simbolo della fecondazione del ventre materno. I menhir, che una teoria affascinante ma non dimostrata vorrebbe posti secondo linee energetiche telluriche essendo al contempo dei collettori di energie cosmiche, sono quindi la rappresentazione immanente del principio divino maschile, sottodimensionato tuttavia rispetto a quel culto per la Mater che per millenni informò la spiritualità del Mediterraneo. I Menhir salentini si distinguono per la loro forma a parallelepipedo, disposti, come notò per primo il De Giorgi, con le facce larghe disposte lungo la direttrice Nord-Sud, seguendo quindi una direttrice ben precisa, delineando da Nord a Sud una vera e propria spina dorsale da Lecce a Santa Maria di Leuca. Le principali concentrazioni di questi megaliti si trovano tra Maglie ed Otranto, precisamente a Giurdignano, coi suoi 18 menhir censiti, delineando un itinerario nell’entroterra che porta alle grotte sacre, la Romanelli e la Zinzulusa, dove si presume avvenissero i riti principali della religiosità Mediterranea, con dei veri e propri santuari intermedi individuabili tra Maglie, Muro Leccese e Giuggianello.
Tra i tanti meritano particolare menzione il menhir San Totaro di Martano, tra le vie Teofilo e Stefano Sergio, il più alto dei menhir pugliesi coi suoi 4,70 m, il monumentale menhir Spruno di Maglie, tra Maglie e Bagnolo del Salento, ed il singolare menhir Vardare di Diso, alto solo 1,76 m ma con un’inusuale forma a T, posto sulla strada che congiunge Diso ad Ortelle. Si era creduto che molti menhir fossero stati distrutti con l’editto di Arles del 452 d.C., che imponeva ai pagani di distruggere i simulacri delle antiche religioni, ma in realtà accadde, come spesso è avvenuto grazie alla pratica lungimiranza della religione cattolica, che essi siano stati nel tempo cristianizzati, mediante l’apposizione di una croce o sulla loro sommità, o incisa nella faccia principale, tramutandoli in “osanna”. Tale strumento architettonico riscosse addirittura particolare fortuna in epoca medioevale, quando vennero eretti molti “osanna” cristiani secondo il canone costruttivo degli antichi menhir, tanto da far ritenere ad alcuni studiosi che la maggior parte dei menhir presenti nel Salento sia di epoca medievale. In realtà la fortuna del menhir come tipologia costruttiva di monumenti religiosi destinati a durare nel tempo è sopravvissuta molto oltre il Medioevo, non solo nei piccoli “osanna”, ma nelle tante colonne votive che caratterizzano le piazze più belle dei nostri comuni, raggiungendo, come nel caso della colonna della Madonna delle Grazie di Maglie, proporzioni davvero imponenti.
Negli ultimi anni sono sorte associazioni di volontari che vogliono preservare questa ricchezza incommensurabile per il nostro territorio, che potrebbero non a torto ritenersi la punta di diamante per un futuro marketing territoriale. Purtroppo, anni di incuria e di colpevole disattenzione verso queste preziose testimonianze di un passato ancestrale hanno fatto sì che molti di essi subissero i danni di millenni, e dove non è riuscita la statica, la barbara ignoranza di teppisti travestiti da turisti o di costruttori senza scrupoli che hanno sventrato la terra per far posto alle brutture dell’architettura moderna, ha contribuito a dare a molti di essi il colpo di grazia.
Altri sono stati distrutti nelle opere di spietramento del territorio alla fine del XVIII secolo, per aumentare lo spazio coltivabile dei terreni a vigna, altri ancora spostati o distrutti per motivi urbanistici. Altri sono stati addirittura utilizzati come elementi architettonici rurali o inglobati in muri a secco. Fortunatamente la cura di alcuni privati, che hanno saputo conservare e preservare o addirittura recuperare, la sensibilità di altri che dedicano il loro tempo libero allo studio ed alla salvaguardia di questi antichi monumenti (per tutti segnalo il sito internet www.pinodenuzzo.com, un vero e proprio gioiello per gli appassionati di Storia Patria) ha permesso di controbilanciare le distruzioni del presente, molto più numerose rispetto a quelle del passato, durante le quali i menhir venivano abbattuti perché si riteneva contenessero la celebre acchiatura, un tesoretto che ha dato adito alla nascita di tante leggende, come quella, molto comune, che voleva richiedere il sacrificio di un fanciullo per ottenere il tesoro nascosto dal menhir, leggenda che trae fondamento dal fatto che accanto ad alcuni menhir, luoghi religiosi per antonomasia nel mondo pagano, venivano sepolti, con il relativo ricco corredo funerario, guerrieri e re.

Vincenzo Scarpello