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Così parlò Zarathustra, “uno spettacolo per tutti e per nessuno”

Il desiderio di condividere a voce alta il messaggio di Friedrich Nietzsche è alla base della nuova “creatura” del regista e attore Matteo Tarasco, in scena il 4 luglio a Maglie presso la Villa Tamborino 

 

Raccontare l’odierno spaesamento quotidiano di una generazione incompresa, cercare di riacquistare, attraverso la fascinazione del palcoscenico, i valori della parola poetica. Ma per mettere Così parlò Zarathustra dentro la scena del teatro occorre essere fisici fisici e primitivi, “naturali”, per essere lo specchio distorto di una nuova barbarie che avanza. Matteo Tarasco presenta così la sua nuova opera, terzo appuntamento della rassegna teatrale Chiari di Luna. 

Da dove ha origine il bisogno di mettere in scena un’opera filosofica oggi? E perché proprio Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche? 

È molto semplice: dalla necessità, anzi dall’urgenza di dire a voce alta le parole di Nietzsche. Ho letto Nietzsche per me stesso, ma mentre lo facevo sentivo che era necessario un ulteriore passo: quello del dire le sue parole ad alta voce, non recitarle, semplicemente dirle, secondo il rituale della scena, senza la pretesa di spiegarle, ma col solo intento di condividerle, di farle risuonare. Proprio per questo, per questa assenza di altre intenzioni se non quelle già dette, il sottotitolo dello spettacolo è “Uno spettacolo per tutti e per nessuno”, perché una comprensione piena delle parole di Nietzsche, una comprensione che dia un senso di sazietà e appagamento non può esistere. Bisogna abbandonare ogni aspettativa di conoscenza. Lo spettatore, chiunque egli sia, andrà via con una parola, anche una soltanto. E sarà la parola necessaria.

Negli ultimi tempi si assiste a un sempre maggiore interesse del teatro per la filosofia e viceversa. Cos’hanno in comune e cos’hanno da dire insieme queste due espressioni culturali e artistiche? 

Perché anche le grandi verità hanno bisogno di essere rappresentate. Anzi oserei dire che oggi sono soprattutto le grandi verità ad avere questa necessità. Siamo vittime del bisogno di vedere. Senza la rappresentazione il messaggio, per quanto alto e vero possa essere, non ci arriva con la stessa potenza comunicativa. Lo dice lo stesso Nietzsche: “Poco comprende il popolo la grandezza, cioè la creazione, ma ha occhi ed orecchi per i commedianti, per quelli che rappresentano le cose grandi”. Quello che è importante, perciò, è creare un ponte tra lo spettatore e quello che avviene sulla scena, un ponte senza meta però, senza volontà di convincimento, senza nessuna intenzione se non quella di condurre lo spettatore altrove.

Uno fra i mille splendidi pensieri di Nietzsche, tratto proprio dall’opera Così parlò Zarathustra, parla del coraggio. Cosa vuol dire oggi per un attore, ma anche per un artista in generale, “avere il coraggio delle aquile e degli eremiti”?  

Avere questo coraggio significa essere liberi dal denaro e dalla compromissione delle proprie istanze più profonde. Significa trovare e scoprire, indagare la profondità delle cose con un unico metodo: quello della necessità, ossia quello di una ricerca che mira all’essenziale. Significa anche partecipare al gioco culturale tenendo sempre ben presente cos’è il talento e cosa invece è la vocazione. Il talento, a dispetto di quello che si crede e si dice generalmente, è solo una pura e semplice astrazione. Basti pensare che un tempo il talento era solo una moneta. La vocazione, invece, è qualcosa di diverso: è una chiamata. Presuppone un lavoro, una fatica e una costante ricerca che si svolge su una dimensione diversa, più spirituale.

Perché oggi il marchio distintivo dei grandi uomini del passato (ossia una sensibilità d’eccezione e un sentimento di dolore che veniva sublimato nell’arte) è diventato una debolezza, una fragilità, a volte anche una patologia? 

Perché viviamo senza pathos, siamo cioè a-patici. Aneliamo a piccoli eventi, non a grandi imprese. Ci accontentiamo dei piccoli eventi del quotidiano. Così la dimensione dell’extraquotidiano, ossia la passione svincolata dal pensiero, finisce inevitabilmente con l’essere svuotata di significato. Il centro dell’uomo non è più lo stomaco, ma la mente. È tutto sorvegliato dal tribunale della mente. Questo ci allontana dalla creatività vera, nostra e degli altri. Tant’è che oggi, se pure ci fosse un nuovo Nietzsche tra noi, forse, non lo riconosceremmo neppure. 

 

Patrizia Miggiano