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Cavtat, ovvero storia di un disastro scongiurato

Alberto Maritati, che nel 1974 era pretore a Otranto e che seguì in prima persona le operazioni di recupero, è sicuro: “Non esiste più alcun pericolo per l’incolumità pubblica”

 

È il 14 luglio 1974 e sono le 4.12 del mattino. Latitudine: 40°04′ Nord. Longitudine: 18°31′ Est al largo di Capo d’Otranto, mar Adriatico. Da una parte c’è la Cavtat, mercantile jugoslavo al comando di Niksa Lucic; dall’altra la Lady Rita, battente bandiera panamense, comandante Carmine Laudato. Non c’è nebbia quella mattina, il bollettino meteorologico dell’Aeronautica Militare parla di visibilità buona. Le due imbarcazioni collidono, la Cavtat inizia a imbarcare acqua, l’equipaggio viene messo in salvo dai membri della Lady Rita. Il mercantile slavo, che potrebbe essere trainato in secca, viene lasciato affondare. Non solo, il comandante Lucic, secondo quanto riportato da Laudato, ne agevola l’affondamento. 

A bordo della Cavtat ci sono 2.800 tonnellate di carico e, in più, 270 tonnellate di piombo, tetraetile e tetrametile, in 909 bidoni trasportati per metà sopracoperta e per l’altra metà nelle due stive. Il rischio è quello di un enorme disastro ambientale. Il primo ad intervenire sul posto fu il pretore di Otranto dell’epoca, Alberto Maritati, che sulla vicenda sta ora scrivendo un libro; insieme a lui abbiamo cercato di ricostruire quell’oscura vicenda avvenuta oltre quarant’anni fa. 

Maritati, lei all’epoca dell’incidente della Cavtat era pretore. Cosa ricorda di quel giorno e come furono gestite le prime ore dell’emergenza? 

Sì, il giorno in cui la nave Cavtat, battente bandiera jugoslava, affondò ero pretore di Otranto. Avvertito del naufragio, mi limitai ad effettuare i provvedimenti di rito, cioè avvisai tempestivamente il Procuratore della Repubblica di Lecce competente per il reato ipotizzato di naufragio. Non vi erano notizie in quel momento per cui io potessi o dovessi effettuare altri interventi. La notizia divenne per me rilevante, nel senso che insorse l’obbligo di una mia azione penale, quando il noto oceanografo Jack Cousteau sulla rivista “Rider Digest” pubblicò un articolo con cui lanciò l’allarme di un possibile disastro ambientale, qualora i bidoni di piombo trasportati dalla Cavtat si fossero aperti. 

La Cavtat trasportava 909 bidoni tra piombo, tetraetile e tetrametile. Di questi 863 furono recuperati il gennaio 1976 ed il dicembre 1978, gli altri 46 che fine hanno fatto? 

All’atto della collisione con la motonave Lady Rita (battente bandiera panamense, anche se realmente di un armatore napoletano) la Cavtat riportò un enorme squarcio sulla fiancata destra e, sempre per effetto della collisione, meno di venti bidoni andarono distrutti -nel senso che furono schiacciati o lesionati-, rendendo poi impossibile un loro recupero come fu invece per tutti gli altri contenitori. Il quantitativo di piombo riversato in mare nell’occasione fu monitorato e gli scienziati che coadiuvarono la mia azione di recupero di tutti gli altri bidoni esclusero un danno pericoloso per le persone. Oggi quel che resta dei fusti è coperto da una mole di detriti marini cementificati e coperti dalla gigantesca mole della carcassa della nave affondata. Non esiste più alcun pericolo per l’incolumità pubblica: posso affermare ciò in relazione ai risultati delle perizie che furono effettuate anche in quella direzione. 

La Cavtat venne poi affondata volontariamente con l’apertura degli oblò e delle cosiddette valvole Kingston. Cosa emerse in proposito dalle indagini?

L’affondamento della Cavtat fu l’esito, probabilmente inevitabile, della collisione con la Lady Rita. Il processo celebratosi presso il Tribunale di Lecce ha confermato che si trattò di naufragio da collisione. L’affondamento della Cavtat di fatto è differente quello di altre navi fatte naufragare per commettere reati o per ragioni occulte. Esso rappresenta un caso se non unico, quanto meno raro, di intervento tempestivo con cui l’Autorità giudiziaria sventò un disastro ambientale, o ritenuto tale dagli scienziati dell’epoca. 

Lei è stato per tanti anni impegnato in politica, finalmente oggi si è deciso di desecretare alcuni atti relativi alle navi fantasma in mano all’ex Sismi. Perché si è aspettato tanto e quali sono le responsabilità politiche in questa vicenda? 

Quando ero Senatore della Repubblica fui nominato vice presidente della Commissione di inchiesta costituita per cercare di svelare le ragioni dell’affondamento di alcune navi nel mare antistante alla costa sud-orientale della Calabria. Ricordo solo il nome di una delle navi per cui iniziammo l’indagine: Jolly Rosso. Fui chiamato a fare parte di quella commissione dal bravo collega senatore Antonino Caruso proprio in ragione della mia pregressa esperienza del recupero dei bidoni trasportati a bordo della Cavtat. Io infatti ripresi i contatti con il personale tecnico (l’ingegnere Losavio della Saipem, l’azienda che a Otranto si occupò del recupero dei bidoni) e vi furono anche accertamenti preliminari. La chiusura anticipata della legislatura impedì la prosecuzione dei lavori di indagine ed accertamento. Questo lo dico sulla base dei miei ricordi, in assenza dei documenti in cui potrebbe anche esserci qualche particolare parzialmente difforme dai miei ricordi.

 

“In caso di pericolo gettare in mare”: quella scritta sui bidoni della Cavtat 

 

La storia della Cavtat trascina con sé altre storie e solleva dubbi. Innanzitutto, la storia di un disastro di dimensioni colossali che avrebbe cambiato per sempre i connotati di tutto il Salento occidentale. Uno scenario apocalittico che si sarebbe sicuramente trasformato in realtà se quei bidoni di teraetile e tetrametile non fossero stati estratti dal mare, a cento metri di profondità, dopo la collisione tra la Cavtat e la Lady Rita. “Sono additivi chimici usati sino agli anni ’90 nella benzina -racconta Elio Paiano, direttore Centro di Educazione Ambientale Terre di Enea e Faro di Palascìa, nonché giornalista del Nuovo Quotidiano di Puglia-. Per la loro pericolosità, l’alto potere cancerogeno, si giunse all’uso delle benzine senza piombo. Quelle sostanze avrebbero avvelenato tutto il Salento nel raggio di qualche centinaio di chilometri, provocando la morte di centinaia di migliaia di persone e distruggendo in maniera irreversibile l’habitat costiero di tutto il Salento”. 

La cosa più sensazionale dell’incidente della Cavtat fu il recupero dei quasi mille bidoni di piombo, teraetile e tetrametile, in un’epoca in cui la tecnologia non era ancora avanzata come oggi e bisognava ingegnarsi, oppure ricorrere all’enorme coraggio di qualche eroe dell’epoca. Secondo gli esperti di allora, infatti, era impossibile recuperare un carico sprofondato fino a cento metri. “Il recupero non era tecnicamente mai stato tentato prima -ricorda Paiano-. C’erano gli studi della Fondazione Cousteau sulle immersioni in saturazione, ma erano in fase sperimentale solo in Norvegia. L’impasse fu superato con un’azione incredibile ed avventurosa: Domenico Barretta, un sub eccezionale che aveva lavorato in tutto il mondo, appena capì la gravità della situazione si offrì di fare lui l’esperimento probatorio perché ‘i miei amici pescatori di coralli a 100 metri scendono ogni giorno’, disse. Con un sistema di zavorre ed una tecnica antichissima questi uomini eccezionali trasportarono in superficie alcuni bidoni”. 

Nel 1974 molte delle tecnologie moderne erano ancora in fase embrionale. Così come non si sentiva ancora parlare di coscienza ecologica. Ecco spiegato il motivo per cui la Cavtat, già segnalata in precedenza per il contrabbando di sigarette, non fu rimorchiata fino a riva: “Sui bidoni -conclude Paiano- era scritto in varie lingue: In caso di pericolo gettare in mare”. 

 

Alessio Quarta – foto: Archivio Luca Turi