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La verità viene a galla

Mentre la Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha ottenuto in questi giorni la desecretazione dei documenti del Sismi riguardanti i naufragi sospetti nel Mediterraneo, ripercorriamo la storia della Cavtat, la prima “nave dei veleni” della storia italiana, affondata il 14 luglio 1974 al largo di Otranto. Il suo carico di piombo tetraetile e tetrametile poteva causare un disastro ambientale di dimensioni colossali, sventato grazie al tempestivo intervento delle autorità e di un gruppo di esperti sommozzatori 

 

L’ambiente salentino implora aiuto ed attenzione. All’inizio fu l’Ilva di Taranto, poi Cerano, quindi la discarica abusiva ritrovata a Supersano in contrada Li Belli (dove vennero seppellite tonnellate di rifiuti speciali provenienti dal settore calzaturiero), ora tocca alla discarica di Burgesi a Ugento, dove si cercano i 600 fusti di policlorobifenili. Questa è la faccia oscura della medaglia del Salento da marketing, quello del sole, del mare e del vento. Se fino ad oggi, tuttavia, i casi più conclamati hanno riguardato l’aria che respiriamo e i campi, un nuovo filone di inchiesta potrebbe aprirsi sulla quantità enorme di rifiuti inabissati nelle acque dello Jonio e dell’Adriatico in questi decenni.

Le chiamano “navi a perdere” o “navi dei veleni”, vale a dire quelle carrette del mare che venivano deliberatamente affondate per far sparire rifiuti tossici e illegali, spesso con il contributo determinante delle organizzazioni criminali, ‘Ndrangheta in testa. Un documento ufficiale della Direzione Investigativa Antimafia registra, solo dal 1995 al 2000, ben 637 affondamenti sospetti nei mari del mondo, 52 nel Mediterraneo. Ma perché sospetti? Perché avvenivano in condizioni meteo perfette, con mare piatto, senza alcuna richiesta di Sos da parte dell’equipaggio, capace di svanire dal luogo dell’affondamento in pochissimo tempo, magari con la complicità di qualche nave che incrociava la stessa rotta. In questo modo l’interesse era doppio: i rifiuti venivano smaltiti illegalmente e, al tempo stesso, si truffavano le compagnie assicurative con finti incidenti. 

La novità degli ultimi giorni è la decisione della Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, presieduta da Alessandro Bratti, di chiedere la desecretazione di alcuni documenti in possesso del Sismi, il Servizio segreto militare (oggi Aise). E la richiesta è stata accettata, con la speranza di scoperchiare in questo modo la pentola bollente dei flussi di rifiuti industriali, compresi quelli radioattivi e gestiti da enti pubblici che sono stati seppelliti in mille modi nel mondo e nel nostro Paese, avvelenandolo. In particolare uno dei documenti desecretati comprende una lista di 90 navi affondate nel Mediterraneo tra il 1989 e il 1995. 

Ma il “privilegio” del primo affondamento di una “nave dei veleni” di cui si ha notizia nel nostro Paese appartiene al Salento: il 14 luglio 1974 la Cavtat si è inabissata a tre miglia dalla costa di Otranto, in seguito allo speronamento con un’altra nave. Il suo carico “speciale” di oltre 900 fusti contenenti piombo tetraetile e tetrametile, poteva causare la più grande catastrofe ambientale nella storia italiana. Ma così, fortunatamente, non è stato. 

 

Navi dei veleni: meglio trovarle che perderle

 

Se i versanti pugliesi dello Jonio e dell’Adriatico siano stati interessati da affondamenti volontari di navi dei veleni sarà appurato da eventuali indagini. Sul punto in cui affondò la Cavtat, ad esempio, è interdetta la navigazione e l’immersione, perché e in quanti lo sanno? Inoltre, nelle acque a noi vicine della Basilicata e, soprattutto, della Calabria il mare potrebbe rivelare sgradite sorprese. 

Lo Jonio, per via della profondità delle sue acque e per lo scarso controllo delle autorità preposte è stato per molti anni il cimitero preferito per imbarcazioni imbottite di scarti micidiali. A sovrintendere alle operazioni, molto spesso, uomini legati alle varie associazioni criminali. Da una segnalazione inviata a Matera nel 1995 al giudice Nicola Maria Pace che indagava sul centro Enea di Rotondella in Basilicata, dove erano avvenuti alcuni incidenti nucleari, emerge un quadro drammatico, che assume connotati ancora più grevi perché spesso eluso dalle varie istituzioni.

Nel 1977 affonda l’Aris, battente bandiera italiana, con un carico di polvere di marmo; nel 1983 tocca alla Reefer, motonave affondata in seguito ad una esplosione; nel 1984 è la volta della Limbros, ad un miglio dell’estremità meridionale di Capo Passero; l’anno dopo tocca alla Giorgiana, sprofondata negli abissi vicino a Santa Panagia; quindi, nel 1991, alla Sea Tiger.

Ma è sulla Rigel e sulla Jolly Rosso che aleggiano i misteri più fitti. La prima, affondata al largo di Capo Spartivento nel settembre 1987, apparteneva ad una ditta di spedizioni con sede a Malta e destinazione Cipro, dove però non arrivò mai. Al suo interno venivano trasportate scorie radioattive, nascoste dietro cemento e polvere di marmo. Niente Sos, nessuna operazione di salvataggio dell’equipaggio, una nave scomparsa chissà come in fondo al mare. 

Collegato all’episodio della Rigel, ma diverso nella dinamica è quello della Jolly Rosso, che anziché affondare, arrugginisce sulle spiagge di Amantea, nel dicembre del 1990, con il proprio carico di uranio disseppellito da qualche parte tra le discariche abusive di Grassullo e Foresta. L’inchiesta giudiziaria, tuttavia, approda solo al capo di imputazione di abbandono di rifiuti su suolo pubblico e occupazione abusiva del suolo demaniale. 

 

Alessio Quarta – nella foto: l’ancora della Cavtat espsta nel molo di San Nicola del porto di Otranto