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Ai primordi dell’Identità  salentina: grotte, Veneri, Dea Madre

 

Un percorso di archeologia sacra nel cuore del Salento

 

Tra le domande fondanti che l’uomo moderno non si pone, rapito dalla specializzazione settoriale del supermarket culturale nel quale si perde, quella centrale, primordiale riguarda l’archè, l’origine. Origine non solo metafisica o ontologica, ma anche sociale ed antropologica, dal momento che l’essere umano, aristotelicamente animale sociale, si è sempre rapportato ai suoi simili non soltanto per motivi di necessaria convivenza, ma anche per quanto concerne la dimensione sociale della concezione dell’assoluto, ossia la religione.
Sorprenderà molti che tra le primissime testimonianze di una concezione dell’assoluto intesa intermini sociali, cioè una religione, si può annoverare il nostro Salento, una terra autenticamente magica, dove l’arcano e l’archè si intersecano e si celano in un reciproco rincorrersi. Già nel Paleolitico, mentre nel resto del mondo l’homo sapiens viveva nello stato più brutale, nel Salento fiorivano le prime forme di concezione dell’assoluto e di aggregazione sociale e religiosa. Una concezione dell’assoluto certamente legata alla natura, dalla quale l’uomo traeva sostentamento, e le cui dinamiche di vegetazione, di nascita e di morte, assumevano una valenza soprannaturale. Come soprannaturale era il fenomeno della creazione della vita, della riproduzione, che vedeva nell’essere femminile il fulcro della vita, in quanto solo la donna è in grado di dare la vita.
La terra, che dava la vita agli uomini tramite i suoi frutti, era così associata ad una madre, ad una donna fertile, che nutriva i suoi figli. Occorreva propiziarsela, donarle l’acqua per renderla gravida (in un territorio povero d’acqua come il Salento tale dato assumeva una valenza ancor più decisiva) e venerarla. La Madre terra era una dea Madre, le cui membra erano le pietre, i cui capelli erano le selve, il cui ventre erano le grotte, nelle quali gli uomini trovavano asilo per difendersi dalle intemperie, in un’ideale ritorno nell’utero materno. Ed alla terra gli uomini tornavano quando morivano, sepolti secondo procedimenti rituali che ne prevedevano l’accompagnamento nel grande Mistero, impedendone nel contempo il ritorno affinché non reclamino quello che avevano lasciato con la vita. E molto spesso accadeva che gli eredi del defunto, soprattutto quando questi era un capotribù, un uomo di particolare vigore o ingegno, volessero appropriarsi delle virtù del trapassato, e quindi ne bevevano il sangue o ne mangiavano le carni. Questo fenomeno è la cosiddetta antropofagia rituale, della quale nella grotta Zinzulusa e nella grotta dei Cervi (nella foto) sono state trovate testimonianze, consistenti in ossa umane spezzate o che presentavano segni di raschiatura.
Altrettanto spesso avveniva che i resti dei capitribù divenissero feticci, come i teschi che venivano tramandati da capo a capo o come le ossa, i femori, magari lavorati, che costituirono l’archetipo dello scettro dei Re. Nel Paleolitico questo fenomeno di antropizzazione del Sacro ebbe il suo principale riflesso non solo nei miti di trasmissione del potere, ma anche in quelli di controllo dell’uomo sulla Natura. Il primo modo di propiziarsi la Madre terra, e quindi venerarla, è senz’altro quello di rappresentarla.
Nelle grotte del Paleolitico salentino, il manufatto artistico più ricorrente è quello delle cosiddette Veneri, che altro non sono che una rappresentazione dell’opulenta dea madre, raffigurata come una donna gravida della quale sono messe in estremo risalto le caratteristiche femminili, come il grembo o il petto prosperoso.
Venere - Dea MadreLe Veneri custodite nel Museo Paleontologico di Maglie (nella foto), di piccole dimensioni, sono manufatti che rispondono ad un comune canone rappresentativo e testimoniano la presenza nelle grotte magliesi (San Sidero, fondo Cattìe sulla Maglie-Cutrofiano, le grotte delle Franite, la scomparsa di Sant’Antonio a pochi metri dalla Chiesa omonima) di una civiltà evoluta già in epoca Paleolitica, che era stata a sua volta l’evoluzione di stanziamenti umani autoctoni ancora più antichi, risalenti al periodo neaderthaliano (65mila anni fa). Le Veneri paleolitiche, raffigurazione della Dea Madre, rappresentano la duplicità di una società primordiale mediterranea nella quale il sacro era monopolio femminile, mentre il sociale rispondeva alla necessità del vigore maschile, che ne rappresentava comunque religiosamente il principio fondamentale con la figura dello sposo della dea madre, il dio della vegetazione, il Signore degli animali, che della Terra nasceva e della terra era sposo, garantendo con la sua selvaggia fecondità la continuazione della vita degli uomini.
Il duopolio trascendente, nella civiltà paleolitica, rimaneva nell’alveo della natura, che esprimeva contemporaneamente il principio maschile e quello femminile, due principi nettamente separati, che garantivano la continuità della vita, necessità fondamentale di società dove il numero che diventava potenza garantiva la sopravvivenza ed il benessere.
Se la terra -principio femminile- garantiva la fecondità, il Signore degli animali -dio vegetazionale e principio maschile- garantiva la fertilità. L’unione dei due distinti principi, quello maschile e quello femminile, con preminenza di quello femminile, costituisce il nucleo archetipico della religiosità paleolitica, che aveva nella grotta, contemporaneamente tempio e abitazione, il luogo dove questo incontro primordiale avveniva.
Grotte che, quando le vedremo nelle nostre passeggiate estive, meriteranno non solo il nostro rispetto e la giusta considerazione come luoghi archeologici, ma ci faranno anche riflettere  circa l’origine della nostra Civiltà millenaria, della quale questi antri selvaggi e spesso coperti di rovi, sono la principale testimonianza.

 

Vincenzo Scarpello