I lavoratori della sede leccese della British American Tobacco (l’ultima manifattura tabacchi rimasta in Italia) rischiano il posto del lavoro perché non sono abbastanza “convenienti” rispetto ai colleghi rumeni. Stessa sorte è toccata in passato ai lavoratori della Filanto e dell’Adelchi, che hanno trasferito all’estero gran parte della loro produzione. Intanto la Fiat Cnh inverte la tendenza e resta nel Salento
È arrivata tra capo e collo, imprevista, senza campanelli d’allarme. Si chiama Bat la nuova vertenza leccese. Bat come British American Tobacco, il colosso del tabacco nato nel 2004 dalla fusione con Eti Spa, la privatizzazione più costosa fatta in Italia da una multinazionale estera. Quella di Lecce è l’ultima manifattura rimasta in piedi in Italia dopo la crisi della filiera e i suoi 500 lavoratori hanno retto alle intemperie del mercato, finora. Fino a quella lettera che sarebbe stata inviata dall’azienda e in cui sarebbero stati giudicati “non competitivi” relativamente al costo del lavoro in confronto agli altri stabilimenti d’Europa. Già, il confronto. Quel maledetto dumping sociale che riesce a guardare solo ai salari più bassi.
È la storia del manifatturiero che si ripete e anche stavolta si guarda all’Est europeo. Alla Romania. Il rischio è il trasferimento lì dell’ultimo baluardo della storia tabacchina di Puglia e d’Italia. Di certo non è un trasferimento dettato dalla crisi. Semmai dal profitto nudo e crudo. Di certo gli operai leccesi non hanno lavorato anche il sabato e ore e ore di straordinario per ripianare conti dell’azienda che non tornano. “Con un portafoglio di oltre 30 marche incluse marche internazionali (tra cui Lucky Strike, Pall Mall e Dunhill) e nazionali (tra cui MS), British American Tobacco Italia si colloca al secondo posto tra gli operatori del settore in Italia”. È una bella medaglia sul sito della Bat. Fulgida nell’incertezza più fumosa sul destino dei lavoratori.
Il documento diffuso il 1° settembre parla di un “piano di ristrutturazione europeo”. Ma cosa significa? Non è stato chiarito dall’azienda quando per la prima volta ha incontrato a Bari i sindacati, l’8 settembre. In un mese si dovrebbero studiare e analizzare le possibili soluzioni alternative alla chiusura, con le istituzioni, Provincia e Regione, che hanno deciso di restare ai margini per ora e intervenire solo se i protagonisti della vertenza non troveranno un accordo. Eppure, era stato proprio il presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone a dire che “il territorio deve difendere a denti stretti questa realtà economica fondamentale alla sussistenza economica e alla sopravvivenza di centinaia e centinaia di famiglie del Salento, di giovani alla prima importante occupazione quanto di meno giovani padri di famiglia, il cui ricollocamento occupazionale in un’economia così in crisi sarebbe assai difficile”. Conseguenze sociali non facili da gestire.
Nuova cassa integrazione pagata dai contribuenti. Nuova, anzi vecchia, consolidata, inaccettabile beffa per il Salento: all’atto dell’acquisizione, cinque anni fa appena, alla società anglo-americana sono stati riconosciuti incentivi fiscali di non poco conto. Chi pensa che si possa guardare subito alle alternative, Bat Italia Spa in primis, dovrebbe ricordarsi innanzitutto di questo. Anche perché -come vanta la società- “la diretta presenza di British American Tobacco in Italia conferma la strategia del Gruppo britannico orientata al maggior coinvolgimento nella realtà dei paesi in cui opera. Solo negli ultimi dieci anni, British American Tobacco ha completato con successo transazioni complesse in molti paesi del mondo, comprese le principali privatizzazioni europee, dando prova di un’abilità d’integrazione unica, incentrata sulla tutela della gestione locale e sullo sviluppo dei marchi presenti in tali paesi”.
Tutela della gestione locale. Principi aziendali. I lavoratori ci hanno creduto. Il territorio ci ha creduto. Lo spettro della delocalizzazione però colpisce ancora. Bisogna capire se si può continuare a rimanere a guardare. Impassibili.
Tiziana Colluto