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Torcito e le altre: l’epopea delle masserie fortificate

Dal 1480 fino alla seconda metà del 1700 hanno garantito la sicurezza del territorio salentino dagli invasori. Ma erano anche importanti snodi di traffici commerciali e veri e propri luoghi di socializzazione

Torcito: un parco bellissimo immerso in una pineta secolare, ove la storia senza fine di un progetto di recupero giace adesso impantanata nelle maglie di una vicenda giudiziaria che, al di là del merito dei fatti, priva la collettività della possibilità di fruire di uno dei più straordinari esempi di architettura rurale fortificata, quasi esemplare nella ricorrenza di tutti i motivi costruttivi tipici di queste particolari strutture, nate per lo smistamento e la gestione dei prodotti della terra, e poi, per necessità di difesa, divenuti baluardi nei quali si rifugiavano i contadini durante i turbolenti periodi delle guerre e delle continue incursioni dalla costa cui il Salento fu endemicamente sottoposto da tempi antichissimi.
Fortilizi autosufficienti, per lo più vere e proprie torri costruite con vere e proprie capacità di autodifesa, con caditoie, barbacani, rampe di accesso che alle volte prevedevano ponti levatoi, inferriate e feritoie da cui poter scagliare frecce e perfino utilizzare piccoli pezzi di artiglieria.
Un Salento militarizzato, quello dal 1480 fino alla seconda metà del 1700, in cui il fenomeno delle masserie fortificate prolificò, aggiungendosi ai paesi cinti di mura ed alle immancabili torri costiere di difesa, capolavoro paesaggistico prima che strutture militari, che garantivano una vigilanza continua.
I profondi motivi di questa vera e propria militarizzazione non sono da ricercarsi nel fatto che il Salento fu teatro operativo di azioni militari, quanto nella ricorrenza endemica, continua e distruttiva delle incursioni dei pirati barbareschi, che con operazioni singole o in grande stile, falcidiavano le coste ed i paesi del litorale, aggiungendosi ai danni fatti dai briganti locali (che erano molto spesso gli stessi contadini, spinti dalla fame, a trasformarsi in malandrini ed ad andare a rubare derrate o preziosi nelle masserie vicine), e dalle malattie e dai morbi, come le tristemente celebri febbri malariche, diffusesi in tutta la Puglia a seguito dell’abbandono delle coltivazioni soprattutto nelle zone del litorale adriatico, tradizionalmente irrigue, e progressivamente trasformatesi in malsane paludi.
Per questo la coltivazione delle poche zone disponibili doveva essere al massimo resa efficiente, ed i centri della economia rurale salentina erano appunto le masserie fortificate. Questi non erano soltanto centri di raccolta e di smistamento, per le olive, per le vigne, per i cereali, ma erano anche e soprattutto veri e propri centri commerciali e di trasformazione dei prodotti degli orti e dei pascoli, che costituivano l’alimentazione tipica delle genti salentine.
Legumi, ortaggi e cereali, ogni tanto formaggio e uova e pochissima carne (limitata alle feste più importanti dell’anno) e, cosa strana, per un territorio circondato per tre quarti dal mare, nessun tipo di pesce, se non la “scapece”, una ricetta di antichissima tradizione. La mancanza di flotte di pesca nei secoli antichi che riuscissero a soddisfare le necessità alimentari, oltre che delle città costiere, pochissimo abitate, salvo Otranto, Castro e Gallipoli, anche l’entroterra, è appunto da ricercarsi nella pericolosità della navigazione nell’Adriatico, letteralmente infestato dai pirati provenienti dai Balcani e dall’Impero Ottomano. Le barche dei pescatori erano facilissima preda dei corsari barbareschi, che su fuste e sciabecchi non solo miravano ad impadronirsi del pescato, ma soprattutto degli uomini, merce preziosa nel mercato degli schiavi.
Le popolazioni dell’interno, pertanto, conobbero il sapore dei piatti di pesce solo recentemente, e gli stessi feudatari dei grandi paesi dell’interno, i nobili ed i borghesi, iniziarono a popolare le marine solo a partire dall’inizio del ‘900. Prima di allora la desolazione dei porti, la difficoltà di movimento, la quasi totale assenza di strade che non fossero tratturi di difficilissima percorrenza, aveva chiuso i salentini nelle mura delle loro cittadine, tanto che, molto spesso i nostri avi morivano senza aver visto mai il mare in vita loro, pur abitandovi a poche ore di cammino.
E ad un’ora di cammino dal mare si trova proprio l’antica Torcito, che più di una torre ha la fisionomia di un vero e proprio fortino, costruito presso le rovine dell’antico borgo di Cerceto, distrutto appunto dai saraceni nell’864, con tanto di atrio circondato da mura, contrafforti, rampe ed una stratificazione storica che parte dai primordi della storia salentina, con le sue tombe scavate nella roccia, con il suo frantoio sotterraneo antichissimo e misterioso nei suoi riti legati alla molitura, la distrutta cappella di San Vito e quella posizione strategica, sulla via Calabra, che lo rendeva vero e proprio snodo di percorsi commerciali, pellegrinali, militari.
Torni presto Torcito ad essere fruito da tutti i salentini, riappropriatisi della propria storia, della propria memoria, della propria tradizione, ad essere assieme a tutti quei luoghi che costituiscono lo scrigno del suo passato rurale, in cui ricordi di antiche genti, di guerre, di amori, di sangue e di fame, si perdono nel vento, accettando la sfida dei tempi presenti, che è, oggi come sempre, quella dell’identità.

Vincenzo Scarpello