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Storia del Salento a tavola, tra falsi miti e solide certezze

Tante verdure, vino e latticini; poco pesce e poca carne, soprattutto quella di cavallo, il cui consumo si è diffuso solo di recente. Questa era la dieta di contadini e pastori di Terra d’Otranto, secondo lo studioso Antonio Margheriti Mastino 
 
Se pensassimo al rapporto che la Terra d’Otranto ha avuto nel corso della sua storia col cibo, saremmo fuorviati  da veri e propri miti culturali, che hanno accompagnato negli ultimi anni lo sviluppo del concetto di tipicità culinaria salentina, nella quale, alla necessità del nutrirsi si accompagnava la voluttà tutta levantina nell’approcciarsi al desco, la cui varietà doveva confrontarsi con materie prime povere, scarne e di difficile reperibilità.
In questa materia ci fa da Virgilio lo studioso di storia del costume e dell’alimentazione Antonio Margheriti Mastino, di origini salentine trapiantato a Roma. 
Professor Mastino, si può o meno parlare di un’alimentazione tipicamente salentina?
Io ho sempre avuto dubbi si possa parlare di tipicità, specie nel bacino mediterraneo, centro di infiniti e ininterrotti traffici e incrocio di tante culture, d’Oriente e Occidente, dove noi siamo collocati. L’unica tipicità possibile dei suoi cibi nasce da qui. La sua pianura brulla, con la scarsa varietà di prodotti, ha aggiunto il resto. Ma poi prendiamo i più classici e famosi piatti salentini. La frisa, le cuddhure, le puddhiche: vengono dalla vicina Grecia; gli gnummarieddhi, la licurdia: vengono da Roma; normanni i ragù e sartù; le famose cupete, i sorbetti, la bottarga, i dolci con pasta di mandorla sono arabi. 
Una cucina per l’aristocrazia, una per i mezzadri ed una per i contadini?
Non è terra di grandi aristocrazie il Salento: è terra di piccole sporadiche nobiltà legate alla terra. Hanno inciso “li patruni”, ossia i massari, legati a doppio filo con i contadini e i pastori, che quasi sempre lavoravano nella sua proprietà. Ma i massari pure, essendo spesso contadini arricchiti, hanno mutuato appena sofisticandole, le consuetudini alimentari di contadini e pastori: dopotutto erano proprio questi a ricavargli (e dividerlo a mezzadria) frutti e formaggi dai fondi e dalle greggi di proprietà del massaro. Spesso era la quantità del cibo più che la quantità a fare la differenza. Che se c’era era data dal possesso in abbondanza di alcuni alimenti preziosissimi: olio anzitutto, poi farina. Ma l’olio soprattutto, il possederne, faceva la differenza a tavola e in società. Uno era ricco quando aveva un quintale d’olio, nella società contadina. 
Come era composta dunque la dieta dei contadini?
Esisteva in Puglia una cucina contadina valida per tutti, salvo il diverso “dosaggio” di alcuni ingredienti, come appunto l’olio: verdure selvatiche, formaggi pecorini, pollame qualche volta, e soprattutto la “carne dei poveri”, i legumi, le fave, cibi proteici che andavano ad appagare la quasi assoluta mancanza nell’alimentazione di proteine animali. Cucina contadina, dunque: ossia cucina di sussistenza, il problema non era tanto come mangiare, ma cosa mangiare per nutrirsi più che per godere. L’indigenza era profonda, i prodotti della terra scarsissimi. Per questo la cucina pugliese è pesante, grassa, ipernutriente: in un piatto si cercava di accumulare quanto più calorie e grassi possibili, per rispondere alla fame atavica: pasta condita con sughi con dentro pezzi di lardo prima soffritti e sopra ancora pane grattugiato fritto e magari formaggio-ricotta… una bomba! Bisognava saziarsi appena c’era l’occasione. 
Si può allora parlare di una cucina diffusa negli ambienti rurali a cui contribuiscono retaggi di un popolo di braccianti agricoli e pastori? 
Come ho già spiegato prima, questa è la terra delle masserie. E le masserie, collocate in mezzo alle campagne, sono il punto di incontro (ma mai di fusione) tra contadini e pastori. Il massaro alloggiava sempre al primo piano e a pianterreno aveva sempre una famiglia di “pecorari”, ossia di pastori che poi diventavano veri artigiani caseari. La dispensa del massaro non mancava mai di formaggi stagionati, legumi, olio e farina, ossia i prodotti dei contadini e dei pastori. Scarseggiava invece di carne, salvo il pollame che però era allevato più che altro per ricavarne uova. Quasi del tutto assente è il pesce. Sì, la cucina salentina è dei pastori e dei contadini: guardiamo il piatto domenicale per eccellenza, la “pasta fatta a casa”, li “ricchiteddhi”, li “pizzarieddi”: pasta, sugo e sopra “cacioricotta” grattugiati, i prodotti della terra e della pastorizia. 
Tutto annaffiato da un vino nerissimo dalle origini antiche.
Ricordo che da bambino vedevo spesso in casa degli anziani il “vino cotto” e speziato con cannella e roba varia, alla maniera degli antichi romani. Ricordo anche, però, che in quella civiltà contadina al tramonto c’era ancora un alto tasso di alcolismo. Perché tanti alcolizzati tra i contadini salentini? No, niente depressione: era un rimedio alla fame atavica, l’alcol in casi di iponutrizione diventa quasi un alimento più che una bevanda, perché rifornisce l’organismo di tutti quegli zuccheri di cui ha bisogno e che mancavano nell’alimentazione, povera e scarsa, giornaliera. E per giunta il vino era di facile reperibilità e, al contrario di oggi, è stato per secoli a buon mercato.
La peninsularità del Salento e la sua non eccessiva estensione non comporterebbe, per logica, una distinzione tra cucina di terra e cucina di mare, mentre invece notiamo delle vere e proprie “aree alimentari”. Come mai? 
In Salento il pesce lo si è mangiato veramente solo nelle zone di mare, portuali più che altro. Ma nell’entroterra il consumo di pesce è stato quasi assente. Il motivo reale non sono riuscito a capirlo, resta il fatto che il consumo di pesce (limitato quasi sempre ad alici, sarde, acciughe, sotto sale) è considerato un ripiego, spesso penitenziale per il venerdì. Oltretutto nell’entroterra il pesce non l’hanno mai saputo cucinare, e oggettivamente vista la scarsa disponibilità di olio, ingrediente quasi sempre necessario per qualsiasi pietanza di pesce, era anche difficile: si faceva il pesce bollito in acqua, sedano, cipolla e qualche cucchiaio d’olio… non era il massimo. Ho riscontrato un dato curioso parlando con molti anziani del brindisino: tutti si lamentavano della fame patita, della scarsissima quantità di cibo, ma poi dicevano che “nella piazza hai voglia quanto pesce c’era, e là restava”. Perché non lo compravano, visto che costava anche poco, se avevano fame? Non si riesce a capire, adducono diverse giustificanti, fra cui -per quanto stravagante sia- la scarsità di materiale combustibile per metterlo alla brace, oltre alla mancanza d’olio. 
Occorre sfatare un altro mito, ossia quello della diffusione nelle tavole e nelle osterie salentine, nei secoli passati, della carne in generale e della carne di cavallo in particolare. 
Prima i cavalli non si mangiavano, non perché si considerasse scandente la sua carne, ma perché un cavallo era preziosissimo, era il principale mezzo di locomozione, era una fortuna averne uno, e chi ce lo aveva poteva considerarsi quasi un “uomo arrivato”, un benestante. In Salento, come ovunque, i cavalli si uccidevano e si mangiavano soltanto quando erano azzoppati o moribondi, o tanto vecchi da smettere di essere un mezzo di lavoro per tornare ad essere solo un animale. In realtà la carne di cavallo si è cominciata a mangiare quando sono comparse le prime biciclette; è diventato di massa il suo consumo quando sono comparse le macchine. E il cavallo ha smesso definitivamente di essere un mezzo. Tutto questo lo ha salvato dalla fatica, ma non gli ha salvato la vita. 
 
Vincenzo Scarpello