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Stop alle telefonate?

Breve viaggio tra i “ragazzi con le cuffie” dei call center salentini, all’indomani dello sciopero generale di lunedì scorso per il rinnovo del contratto di lavoro. Ma, oltre alla precarietà, la paura più grossa per gli operatori è il rischio concreto di trasferimento all’estero (in Romania e Albania) delle attività da parte delle più grandi aziende del settore
 
A cura della redazione
 
Le adesioni allo sciopero nazionale dello scorso 17 settembre hanno sfiorato il 70%: da Nord a Sud migliaia di operatori telefonici hanno incrociato le braccia per dire no ad una sempre più probabile “correzione” al ribasso del contratto di lavoro. Si è trattato di uno sciopero che potrebbe sfociare in una manifestazione nazionale il prossimo 19 ottobre. L’obiettivo dei lavoratori è quello di impedire alle imprese di rivedere il contratto collettivo nazionale dei dipendenti dei call center. In particolare, viene chiesta ai dipendenti una forte flessibilità, che va dal non pagamento dei primi tre giorni di malattia all’utilizzo di ferie e permessi individuali per i periodi di calo del traffico. Il salario di un operatore telefonico -va ricordato- si aggira oggi mediamente attorno agli 800/900 euro al mese. 
Nel capoluogo salentino la situazione non è diversa. I dipendenti dei due principali colossi che offrono servizi di assistenza tecnica in outsourcing, Comdata e Transcom, hanno aderito in massa allo sciopero. Le due aziende contano complessivamente oltre 2mila assunti, tra operatori stabilizzati e precari con contratto a termine. Vengono principalmente dal capoluogo e dalla provincia, ma non mancano dipendenti del tarantino e del brindisino. Hanno mediamente poco più di trent’anni, quasi sempre una laurea conseguita presso l’Università del Salento e in alcuni casi anche un brillante curriculum zeppo di specializzazioni post-universitarie, spesso con tanto di esperienze all’estero. In provincia anche altri call center si occupano di assistenza per importanti partner nazionali, come ad esempio la “Call&Call” di Casarano e la gallipolina “Progetto Vendita”. 
Ma al di là del contratto di lavoro è un altro questione particolarmente sentita dagli operatori in terra salentina: i tratta delle possibili -e temute- delocalizzazioni, la possibilità, cioè, che i call center spostino all’estero gran parte dell’attività e dei servizi. In particolare verso nazioni come Romania e Albania, dove il costo del lavoro è assai più basso. 
Si tratterebbe di una vera e propria beffa, alla luce del fatto che le aziende che hanno deciso di aprire i battenti nel Salento, e nel sud Italia in generale, spesso lo hanno fatto non per amore del sole e del mare, ma perché agevolate da normative europee, nazionali e regionali che permettono di ricevere comodi sgravi fiscali per chi investe nel meridione. Una volta, quindi, che le sovvenzioni finiscono, si parte in est Europa? È un altro dubbio che riguarda il lavoro, e quindi le vite, di almeno duemila salentini -spesso con famiglia al seguito alle prese con una globalizzazione “bizzarra” e, spesso, spietata.