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Siamo in guerra (con buona pace di tutti)

Iraq, Somalia, Serbia, Kosovo, Afghanistan e oggi Libia. Ancora una volta il nostro Paese partecipa a delle operazioni militari per “riportare la pace”. Ancora una volta chi ci governa ha garantito che i nostri militari non spareranno un colpo, ma forniranno solo la giusta assistenza ai loro colleghi della Nato (come se in una rapina chi fa il palo non debba essere accusato dello stesso reato di chi materialmente commette il crimine). 
La nostra Costituzione ripudia la guerra come strumento di risoluzione di controversie internazionali. Non quando c’è di mezzo il petrolio, forse 
 
“Si vis pacem, para bellum”. Così, con cinismo d’altri tempi, gli antichi spiegavano la necessità di intervenire militarmente, utilizzando l’uso delle armi in maniera preventiva sui “fronti caldi” delle aree più instabili. Dopo il Kosovo, il Libano ma anche dopo l’Iraq e l’Afghanistan sotto l’etichetta “missione di pace” rientra adesso l’intervento in Libia chiamato “Odyssey Dawn – Alba dell’Odissea” contro il regime di Muammar Gheddafi (nella foto). L’azione avallata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu è articolata e i distinguo sono tanti rispetto alle precedenti operazioni militari: no fly zone; da subito protezione dei civili di Bengasi; divieto di voli commerciali da e per la Libia; rafforzamento dell’embargo sulle armi, ma escludendo esplicitamente una “forza occupante”. 
Eppure dopo aver visto la potenza e la forza d’urto della coalizione, resta il retrogusto di un lavoro sporco, fatto per non farsi sfuggire l’occasione di appropriarsi di risorse indispensabili per il futuro del Mediterraneo. “Petrolio” è la password che apre tanti file segreti, neanche troppo nascosta come ai tempi dell’Iraq quando la volontà di “esportare la democrazia” nascondeva le ragioni di un conflitto che ancora oggi fa sentire tutto il suo peso. “I popoli della regione sono consapevoli che la democrazia viene imposta in primo luogo nei paesi petroliferi che non vanno molto d’accordo con l’Occidente. Questa è la ragione per cui vi è un sapore amaro nell’opinione pubblica araba”. Così lucidamente scrive un giornalista turco, Ergun Babahan e se la Francia non ha esitato a prendere il comando ufficioso delle operazioni non è perché la cugina d’oltralpe è più sensibile ai diritti umani: Gheddafi è al potere da oltre quarant’anni ma le elezioni in cui il presidente francese Sarkozy è dato in netto calo sono alle porte. Anche le parole di Napolitano, all’ingresso del Museo del Risorgimento di Milano, sono sembrate di facciata: “Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un operazione autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu”. 
E se due emblemi progressisti come Daniel Cohn Bendit e Nichi Vendola se le suonano di santa ragione vuol dire che c’è qualcosa che non va e che scomodamente si affaccia alle coscienze: “Attenti, ragazzi -ha messo in guardia il politico tedesco- chi scende in piazza contro la missione internazionale cerca magari una terza via ma di fatto non è neutrale, bensì con Gheddafi. Perché niente cortei quando Gheddafi massacrava il suo popolo? Ricordate Francia e Gran Bretagna del 1936, che lasciarono sola la Repubblica spagnola contro Franco, Hitler e Mussolini”. Il presidente Vendola invece ha lanciato una critica durissima alla strategia mediterranea dell’Italia e alla missione militare in Libia: “La risoluzione Onu poteva essere letta in molti modi -osserva Vendola-, si è scelta la strada più rischiosa riproducendo il ciclo paradossale di impedire il massacro di civili attraverso massacri di civili. Se fossi in Parlamento voterei ‘no’ ai bombardamenti su Tripoli, preferendo la strada diplomatica, alternativa prevista nella risoluzione Onu”. 
D’altro canto basta partire dalla Puglia per comprendere come invece di vera e propria guerra si tratti, con buona pace di tutti, in particolare di don Tonino Bello che invitava a “protenderci nel Mediterraneo non come ‘arco di guerra’ ma come ‘arca di pace’. La base di Taranto ospita la linea operativa della flotta militare italiana e dopo la partenza della portaerei “Garibaldi”, che pattuglia il canale di Sicilia, è rimasta la portaerei “Cavour”, in grado di salpare a seconda delle necessità nel giro di poche ore. Nella zona delle operazioni, al largo delle coste libiche, ci sono quattro unità navali: la stessa “Garibaldi”, il cacciatorpediniere “Andrea Doria”, il rifornitore di squadra “Etna” e la fregata “Euro”, navi partite dalla base militare di Taranto con a bordo oltre 1.500 militari, la maggior parte dei quali è di origine pugliese. La portaerei “Garibaldi”, che attualmente incrocia al largo delle coste siciliane in attesa di disposizioni, ha a bordo otto AV-8 B plus, aerei a decollo verticale dislocati nella base di Grottaglie. Le basi aeree dislocate nel resto d’Italia sono cinque, cioè Sigonella, Aviano, Trapani, Decimomannu, Pantelleria. A cui si aggiungono le due pugliesi cioè Amendola (dove sono schierati i caccia Amx e i velivoli senza pilota Predator) e Gioia del Colle, che per ora è utilizzata da supporto logistico per i dieci Eurofighter Typhoons della Raf, l’aviazione inglese e quattro Tornado, sempre inglesi.