Acclamato protagonista della XIII edizione del Festival del Cinema Europeo, che ne ha ripercorso e celebrato i trent’anni di carriera, l’attore e regista romano si racconta con intelligenza e sensibilità
Cammina con i grandi occhi scuri rivolti alla pietra leccese smaltata di luce dei palazzi di via Vittorio Emanuele. Si muove verso l’ex Monastero Teatini, dove giunge puntuale per l’incontro con la stampa. Attore, regista o “manipolatore di talenti altrui”, come ama dire, e sceneggiatore, Sergio Castellitto (a destra nella foto, insieme ad Alberto La Monica, direttore del Festival del Cinema Europeo) continua a sperimentare attraverso la sostanza di cui è fatto il cinema, quella dei sogni, e con il suo ultimo film, Venuto al mondo, scolpisce la sua quarta regia: tratto dall’omonimo romanzo di sua moglie, la straordinaria scrittrice Margaret Mazzantini, cementa tra i due una già intensa collaborazione artistica avviata, otto anni prima, con Non ti muovere.
Lui che, ci tiene a sottolineare, è stato un apripista. “Ho rotto lo stereotipo per il quale c’era l’attore di cinema, quello di teatro o di televisione. Per me c’è l’attore ed ho inseguito progetti in cui il mezzo fosse meno importante della qualità. I miei film per la televisione penso siano, grazie ai registi, alle storie e agli sceneggiatori, le cose migliori fatte negli ultimi vent’anni: Il grande Fausto, Don Milani, Padre Pio”. E proprio con riguardo a quest’ultima fiction, a noi del “Belpaese”, racconta: “È stata un’esperienza eccezionale. Nel ruolo di Padre Pio, di quest’uomo che esce dalla terra e va verso il cielo, di questo asceta e mistico che suda sangue, ho sentito costantemente una grande responsabilità; eppure la costruzione del personaggio è stata per me il più possibile vicino al corpo. Mentre, infatti, su Don Milani ho lavorato più sull’intellettualità, su Padre Pio sentivo che il corpo portava l’anima, e allora mi mettevo i bigodini che pungevano sotto i piedi per sentire fisicamente qualcosa”.
Capace di incantare con le parole, quasi quanto davanti alla macchina da presa, ricorda: “In quegli anni avevo una casa a Salina ed ero lì in vacanza prima di cominciare le riprese. Un giorno mi recai da un barbiere a Malfa; era claudicante e si muoveva faticosamente intorno a me per tagliarmi i capelli. Parlavamo e quando seppe che stavo per girare il film su Padre Pio quasi gli casca la forbice dalle mani, fa un passo indietro e dice “Signor Castellitto, una cosa le chiedo. La salute!”, sorride. “Questo episodio divertente mi fece capire -osserva poi serio- il peso di quel personaggio e di tutta questa folla umana dietro di lui, ma fatta di individualità che chiedevano da lui una risposta”.
Addentrandosi più nel tecnicismo, con riguardo alla preparazione di un personaggio realmente esistito, spiega: “Si ha a disposizione una quantità straordinaria di materiale, puoi leggere libri, parlare con persone che l’hanno conosciuto, ma nel momento della recitazione penso che si debbano lasciare alle spalle tutte queste informazioni, perché è il gesto fisico il primo che l’attore compie. Per il personaggio di Padre Pio, di cui conoscevo tutta la vita e letto tutto il leggibile, i miei pensieri erano volti a sapere come si sedeva e come si alzava dalla sedia un uomo così stanco”. Dotato della rara capacità di emozionare lo spettatore nella sua interezza, catturandone occhi, cuore e cervello, precisa come per lui l’emozione sia un gesto dell’intelligenza. “Emozionarsi significa aver recepito qualcosa, averla riconosciuta come facente parte della propria vita o come qualcosa che l’ha solo lambita. L’attore è una specie di sacerdote laico che conduce lo spettatore a questo tipo di cerimonia, cioè il riconoscimento delle emozioni, ed entra in qualche misura a far parte, attraverso i suoi personaggi, della vita di ognuno di noi. Capacità questa di cui non ci si deve vantare perché il talento non è un merito di per sé, ma è un olio un po’ misterioso che ti scende da non so quale fato”.
E il suo talento, mirabile e taumaturgo, è stato scelto e celebrato da un rosario infinito di registi per i loro film: Francesca Archibugi, Ricky Tognazzi e Giuseppe Tornatore, passando per i grandi maestri Scola, Ferreri e Monicelli, fino ad arrivare a Bellocchio. Un’anima intelligente quella di Sergio Castellitto, semplice e al contempo complessa, icasticamente razionale e osmoticamente sensibile, vibrante di una cultura di profondo respiro. Quella del cuore.
Claudia Mangione