Cerca

Rocco Panico: “Noi, operai dell’Adelchi, siamo soli. Ma non ci arrendiamo”

L’operaio di Tricase, da anni simbolo della lotta dei lavoratori dell’Adelchi per la difesa del proprio posto di lavoro, denuncia senza mezzi termini la situazione in cui versano lui e i suoi colleghi a due mesi dall’annunciata mobilità 
 
Dopo oltre due anni di cassa integrazione, si definisce “normalmente arrabbiato” e l’ombra minacciosa della mobilità, che potrebbe palesarsi a gennaio, ha accentuato la sua voglia di combattere per salvare il proprio posto di lavoro e quello degli oltre 700 colleghi dell’Adelchi. Lui è Rocco Panico, uno dei simboli di una lotta intrapresa a partire già dal 2000 a sostegno del diritto al lavoro degli operai, molti dei quali padri di famiglie rovinate destabilizzate dalle strategie occupazionali dell’azienda.
Rocco, a lei e a gli oltre 700 dipendenti dell’Adelchi in cassa integrazione è stata comunicata l’entrata in mobilità a partire dal 1° gennaio 2012. Come ha reagito a questo ennesimo brutto colpo?
È stata una notizia a bruciapelo, ma ormai non mi meraviglia più nulla delle scelte dell’azienda. Siamo abituati a queste strategie; le considero delle minacce che Adelchi Sergio rivolge ai suoi operai, sfruttando la loro debolezza e il loro terrore di perdere il posto di lavoro. Adelchi gioca sulle paure delle persone; si è sempre sentito un padre, ma se così fosse, cercherebbe di mantenere qualche catena di montaggio nel proprio paese, mentre invece vuole sfruttare la popolazione, comprese donne e bambini, delle nazioni più povere. Non è un imprenditore moderno e, più che un padre, è un “padre-padrone” che vuole tutto per sé, comportandosi come se non avesse nulla.
Purtroppo l’ombra della mobilità si allunga sempre più sul vostro futuro. Eravate in 2mila e ora siete rimasti in 720. State preparando qualche nuova iniziativa per scongiurare questa ipotesi? 
A breve ne sapremo sicuramente di più e non escludo assolutamente altre vigorose strategie di lotta, anche più forti di quelle messe in atto finora. Vorrei che sia chiaro un aspetto della nostra battaglia: a noi interessa né cassa integrazione, né mobilità, né ammortizzatori sociali di qualunque sorta; a noi interessa solo ed esclusivamente lavorare. Gli ammortizzatori sociali, poi, sono degli strumenti che io definisco di “pausa lavorativa”: sono utili in periodi di calo di commesse, come possono essere i cambi di stagione ad esempio, e servirebbero per rigenerare le forze e riprendere poi a lavorare a pieno ritmo con la nuova produzione. Noi invece siamo a casa dal 16 marzo 2009 a orario zero e con il solo aiuto statale. Il lavoro e la dignità delle persone devono però prevalere su tutto. Adelchi, poi, ha già delle cause in corso, ma nonostante questo continua a mercanteggiare con la giustizia a modo suo.
Come vi stanno sostenendo in questi anni sindacati e istituzioni politiche?
Esiste una sfiducia generale nei loro confronti. I sindacati non fanno altro che ripetere che non bisogna in alcun modo accettare i licenziamenti, ma si muovono solo quando esplode il problema e non hanno mai pensato di agire direttamente sul mantenimento del lavoro, eppure è tra i loro poteri e funzioni essere di aiuto alle aziende e ai lavoratori in queste situazioni. Regioni e Governo dovrebbero invece finanziare solo le aziende serie, non gli imprenditori come Adelchi che ora vogliono sfruttare la povera popolazione dei paesi più disagiati. Gli operai hanno paura di perdere il proprio posto e questo alimenta il lavoro nero e il rifiuto di continuare a combattere. Bisogna rimanere uniti, ma siamo soli, con i pagamenti della cassa integrazione mai puntuali e con qualcuno che spesso ci aiuta solo per stare “in passerella”. 
 
Alessandro Chizzini