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La nuova “guerra” per il controllo dell’acqua

I pugliesi bevono all’acquedotto colabrodo. E nei palazzi si combatte una battaglia di principi

 

È giusto considerare l’acqua un bene materiale su cui esercitare il diritto di proprietà,  come avviene per i giacimenti di petrolio, per l’energia elettrica, per le reti telefoniche? Secondo quanti sono insorti all’approvazione del decreto Ronchi al Senato, giovedì scorso, no. Senza petrolio, gas, elettricità si sopravvive. Senza acqua no. Lo scrivono gli attivisti del Forum Italiano per l’acqua pubblica nella proposta di legge di iniziativa popolare (ora ferma in Commissione Ambiente della Camera) per la quale sono state raccolte in Italia 400mila firme, 30mila solo in Puglia: “L’acqua è un bene naturale e un diritto umano universale. La disponibilità e l’accesso individuale e collettivo all’acqua potabile sono garantiti in quanto diritti inalienabili ed inviolabili della persona”. L’acqua è un bene comune, come l’aria che respiriamo, e deve essere garantita a tutti. Un compito che possono assumersi solo le amministrazioni pubbliche, in quanto garanti del supremo interesse della collettività.
La legge approvata al Senato (135/09), all’articolo 15, sancisce che i servizi pubblici dovranno essere affidati attraverso gare d’appalto ai privati, salvando la proprietà pubblica degli enti che ne garantiscono l’erogazione al 30% entro il 2015. Questa norma varrà per tutti i servizi, escluso il gas e i trasporti ferroviari locali e la gestione delle farmacie comunali. Dunque, la distribuzione delle aspirine resta pubblica, quella dell’acqua in cui scioglierle no. Le associazioni dei consumatori hanno già lanciato la proposta di un referendum abrogativo. E dato il precedente della legge di iniziativa popolare, e il ritrovato interessamento del centrosinistra, le 500mila firme  in breve tempo non sembrano impossibili.
Prima dell’approvazione del decreto Ronchi al Senato, la Regione Puglia (che possiede l’acquedotto più grande d’Europa, controllato da Aqp spa, le cui quote sono interamente di proprietà pubblica) aveva contestato l’articolo 15. Con una delibera del 20 ottobre, la Giunta Vendola, appellandosi alla Corte di Giustizia Europea aveva dichiarato l’acqua un bene comune e il servizio idrico “privo di rilevanza economica” in quanto servizio pubblico essenziale. Gli avvocati della Regione stanno preparando il ricorso. Qui si consumerà la battaglia tra Regione Puglia e Governo. Il decreto Ronchi è infatti “figlio” della direttiva europea sui servizi pubblici, la 2006/123/CE, meglio conosciuta come “direttiva Bolkenstein”, che sancisce la discrezionalità degli Stati membri nell’individuazione dei servizi pubblici di rilevanza economica da liberalizzare (art.1). Per il Governo, l’acqua è uno di questi.
Ma la battaglia non si gioca solo sui principi. Le liberalizzazioni dovrebbero assicurare una maggiore efficienza dei servizi, rischiando un costo maggiore. Con i suoi 1.800 dipendenti l’Acquedotto Pugliese è uno dei maggiori “carrozzoni” a conduzione politica da trent’anni a questa parte. Che perde il 47% dell’acqua immessa nei suoi 15mila chilometri di tubature. Ristrutturarlo, in tutti i sensi, è un’impresa quasi impossibile per le amministrazioni pubbliche. Un compito che il Governo, e i suoi membri pugliesi, intendono affidare ai privati.

 

Alberto Mello