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“Hanno impiegato noi immigrati, perché abbiamo bisogno e stiamo zitti”

Nelle testimonianze di alcuni extracomunitari che hanno lavorato per la Tecnova tutta la drammaticità di un universo caratterizzato da sfruttamento e omertà 
 
Ogni tanto ne vedi sfrecciare uno tra le strade di Lecce. Nella gran parte dei casi è quasi completamente scassato. Un cartone al posto del finestrino, dentro fino a otto, nove persone. Sono i pulmini che Tecnova ha lasciato ai lavoratori, nella fretta di fare i bagagli. Il primo lo incontriamo alle 6 del mattino. È l’unico e arriva con un po’ di ritardo in via Duca degli Abruzzi. È passato a caricare pakistani, ghanesi, senegalesi, kenioti, indiani, per portarli nei campi di lavoro. 
Nonostante la primavera sia arrivata, fa freddo, è tramontana, Emanuel si sfrega le mani. Poi scuote la testa: “Oggi ci lasceranno qui, vedrai, dopo le proteste di ieri a San Pancrazio sanno che incroceremo le braccia. Senza soldi non siamo più disposti a montare un pannello”. Ma non è solo una questione economica? “Sai, io ho un figlio piccolo, sta iniziando ora a parlare, ma se lavoro dalla 7 del mattino alle 7 di sera, non ho il tempo di insegnargli neppure una parola, non ho il tempo di giocare con lui, arriviamo a casa distrutti. E poi per cosa? Se è per fare la fame sarei rimasto in Kenya. Pensa che per la paura di non trovare altro impiego alcuni di noi si accontenterebbero di continuare così, con Tecnova. Io no, sono un maestro muratore, ho lasciato i miei numeri nelle ferramenta della città. Troverò altro”. 
L’orologio segna le 7 e degli altri pulmini non c’è traccia. A quanto pare sono arrivate delle telefonate dai capi spagnoli. Probabilmente sanno che sono state allertate pure le Forze dell’ordine. Attorno ad Emanuel si forma un capannello di operai. Ci raccontano storie che sembravano trapassate. Moltissimi di loro non vivono stabilmente nel Salento, sono venuti apposta per questo lavoro. Da tutta Italia. Da Pordenone un ragazzo eritreo, “lavoravo in un mobilificio, poi con la crisi mi hanno fatto fuori. Ho 4 figli in Africa e in dieci anni sono riuscito a vederli solo due volte. A me i soldi servono per spedirli a loro”. 
Moltissimi vengono dal salernitano e dal napoletano, in Puglia ci sono già stati per raccogliere i pomodori a Foggia. Per avere questo impiego hanno pure pagato, secondo le vecchie e odiose leggi del caporalato. Non tutti ma in tanti. “Sì -ci dicono- c’era un senegalese che prendeva 300, 500, a volte addirittura 800 euro per farti entrare a Tecnova. E questo moltiplicato quasi per ognuno di noi. Poi ad un certo punto se ne è andato, non sappiamo perché, ma a febbraio è sparito. Forse di soldi ne aveva fatti abbastanza”. 
Quando lo vediamo arrivare, lo confondiamo con un italiano, ma viene dal centro della Tunisia e ha 29 anni. È Wissem, il primo a presentare un esposto in Procura, tramite l’Ugl, già a novembre. Con lui altri dieci. Poi di fronte ai mancati pagamenti è iniziata la raffica di esposti. Oggi se ne contano quasi un’ottantina. È ciò che avrebbe permesso alla Guardia di Finanza di bloccare 5 milioni di euro sul conto bancario della società. Wissem vive con “due fratelli”, uno in realtà è un amico. Fino a qualche mese fa era a Parma, dove dal 2006 studia ingegneria. “Una laurea l’ho già conseguita nel mio Paese- ci sottolinea- però lì non c’è possibilità di occupazione e allora mi sto specializzando in Italia, il mio sogno è andare in Canada. Mi mancano tredici esami. Ma da quando non ho più vinto la borsa di studio, per mantenermi sono costretto a lavorare. Ecco il motivo per cui mi trovo a Lecce. Doveva essere un impiego stagionale ma ben retribuito, una busta paga da 1.300 euro al mese. Invece ci hanno rovinato. Non abbiamo più un soldo neppure per tornare a casa”. 
Sogni che diventano rabbia. Tanta, quando te lo senti addosso il senso di ingiustizia. Wissem e i suoi amici hanno scelto di affidarsi al sindacato e alle istituzioni, prima ancora che scoppiasse la questione pagamenti. “Tecnova ha impiegato per la gran parte solo immigrati. Perché? Perché abbiamo bisogno e ci stiamo zitti, perché alcuni non sono in regola e si stanno zitti, perché credono che siamo stupidi e ci stiamo zitti. Ma non è affatto così”. 
 
Tiziana Colluto