di Stefano Manca
Sere fa mi trovavo in pantofole davanti alla televisione, col mio cane che ronfava beatamente ai miei piedi. Citofonano, vado ad aprire: i carabinieri. Mi avvertono di furti nelle auto avvenuti pochi minuti prima nei pressi di casa mia, e di stare attento alla mia auto visto che era aperta (ero stato io a dimenticare di chiuderla, fortunatamente senza che nessun ladro approfittasse della mia distrazione). Poche ore dopo la lieta notizia: il ladro, anzi i ladri, erano stati presi. Si trattava di tre giovanissimi del posto, Nardò, due ragazzi di 15 e 17 anni e una ragazza di appena 14, autori probabilmente anche di altri furti e danneggiamenti vari a danno di abitazioni ed edifici pubblici e privati. Il rapido epilogo avrebbe dovuto tranquillizzare il mio quartiere. Ma non è così, almeno nel mio caso. Continua infatti a turbare la giovanissima età degli autori di questi reati e l’inevitabile utilizzo del termine “baby gang”. Il Ministero dell’Interno purtroppo conferma tali timori ricordando che le bande giovanili sono in aumento in Italia, a causa soprattutto di situazioni di disagio, a volte familiare e a volte sociale, oppure da mancata integrazione o legami con la criminalità. Alle azioni violente e reati compiuti da giovanissimi la risposta delle istituzioni vede raramente in sede giudiziaria il riconoscimento dell’associazione per delinquere ma, più frequentemente, della cosiddetta “messa alla prova”. Ciò denota la mancanza a oggi di un approccio specifico del quale forse è giunto il momento di parlare.
(Belpaese del 27 gennaio 2024)