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Fatto in casa

Aumenta anche in Puglia la richiesta di poter far nascere i figli presso il proprio domicilio: un desiderio che non è nostalgia del passato, ma che diventa legittimo oggi per chi vuole vivere in maniera più naturale e serena l’esperienza del parto, specie dopo la recente chiusura di numerosi punti nascita nel nostro territorio. Un progetto possibile anche per la Asl, a condizione che il tutto avvenga sempre sotto controllo e in piena sicurezza  
 
Una stella e una croce. Una sull’altra. I nostri registri parrocchiali erano pieni di questi simboli, fino a qualche decennio fa. E chi sa leggerli sa cosa significano. La vita e la morte, nello stesso momento. E spesso, a margine, un’annotazione: “L’ostetrica non ha potuto fare nulla”. I parti a domicilio, per le nostre donne, troppo spesso hanno coinciso con questo, un’annotazione su un lungo elenco di vite mancate. 
Ora che si ritorna a parlare della possibilità di far nascere i propri figli in casa, l’approccio si porta dietro la tara di esperienze neanche tanto lontane, drammatiche. E le paure tornano a galla come secchi da un pozzo. Eppure, non sarebbe lo stesso. Impossibile non fare tesoro delle acquisizioni mediche, scientifiche e tecnologiche apprese in quarant’anni di ospedalizzazione forzata, anche quando il bisogno non c’era. 
Non sono discorsi fuori contesto. Se proprio ora vengono affrontati, un perché c’è. Il taglio dei punti nascita in tutte le cliniche private della provincia di Lecce e negli ospedali -per il momento, di Casarano e Gallipoli- porta a chiedersi quale sia la vera alternativa per il benessere della gestante e del suo bimbo. Ora più che mai il ritorno ai parti in casa, di gran lunga perfezionati rispetto a una volta, potrebbe essere la strada maestra. E con il piano che riprogetta l’intero percorso nascita, la Asl sta gettando le fondamenta perché questo avvenga. Attorno alla madre e al nascituro, infatti, nessuna improvvisazione può essere tollerata. 
Qualcuno, qualche pioniere, anche nel Salento, lo sa. Il gruppo che da tempo lavora a Scorrano ripercorre le orme delle avanguardie nord italiane ed europee. C’è un dato passato a lungo sotto silenzio e che riguarda proprio la regione Puglia. Nel 2004, un’indagine conoscitiva svelò che il 22,6% delle donne pugliesi avrebbe partorito in casa se il ginecologo glielo avesse proposto. Da chi è stato finora colto questo bisogno? Da nessuno. 
Forse è il momento di iniziare ad aguzzare la vista, anche perché di ogni medaglia c’è il suo rovescio, su cui i dati sono impietosi. La percentuale di parti cesarei, in alcuni ospedali e cliniche della zona, ha superato il 55-60%, stranamente proprio laddove il numero dei parti è risultato inferiore. Forzature mediche che non trovano sponda in nessuna spiegazione clinica. E forse, alla fine, chi lo sa, non tutti i tagli vengono per nuocere. 
 
Tiziana Colluto  

Una realtà già collaudata

Dalla provincia di Trento ai picchi dell’Olanda. Quello che oggi qui è un sogno nel cassetto, in altri luoghi è uno standard. Da molto tempo  

In provincia di Trento ci si è preoccupati anche di stilare un cronoprogramma del parto in casa. Ad ognuno il suo ruolo, ognuno al proprio posto, già da molto tempo prima. “Dopo la chiamata da parte della donna, in genere verso l’ottava/decima settimana (ma anche dopo questo termine), l’ostetrica effettua un colloquio informativo gratuito, includendo possibilmente anche il partner. Dalla presa in carico fino alla 37esima settimana, l’ostetrica assicura di norma almeno una visita al mese. Dopo, inizia la reperibilità da parte dell’ostetrica, che si ferma a casa della donna quando il travaglio è cominciato. Non viene preso alcun contatto preliminare con nessun punto nascita ospedaliero nelle vicinanze, se non in casi particolari. Il taglio del cordone ombelicale viene effettuato dopo l’uscita della placenta, possibilmente dal padre. Dopo il parto, l’ostetrica rimane per qualche ora a casa della donna, per assicurarsi che non ci siano complicazioni”. 

Tutto nero su bianco nello studio dell’Azienda Sanitaria Locale. È proprio la provincia di Trento, infatti, la più all’avanguardia su questo versante, con 135 parti domestici nel giro di un quinquennio e un percorso organizzativo avviato già nel 1988. I dati a livello nazionale più recenti risalgono al 2004 ed evidenziano che la proporzione di nascite a domicilio è stata dello 0,17% di tutti i parti, con valori compresi tra lo 0,04% della Sicilia e 0,85% dell’Emilia-Romagna. Percentuali inferiori rispetto a quelle del resto d’Europa, con l’1% della Finlandia, il 2% del Regno Unito fino al 30% dell’Olanda. 

È in questa culla territoriale che è nata la controtendenza rispetto all’eccessiva ospedalizzazione degli anni ’70 e alla concezione del parto come momento chirurgico, conseguenti alla  considerazione, inesatta, che i migliori criteri assistenziali, validi per le condizioni patologiche ad alto rischio, dovessero essere utilizzati in tutte le gravidanze. Ed è proprio in nord Europa che, dai primi anni ’80, un movimento di ostetriche e donne ha dato corpo alla consapevolezza di passare ad  una gestione più autonoma, più responsabilizzata ed umanizzata della gravidanza.

Certo, rimangono le sacche di resistenza, legate alla percezione di rischi maggiori fuori dalla struttura ospedaliera, all’assenza di un rapporto delineato con questa, ai costi, che si aggirano intorno ai 750 euro, almeno a Trento, dove il servizio è assicurato, però, alla presenza di una sola ostetrica. In alcuni casi si sfiorano anche i duemila euro. E al momento, in Italia solo le regioni Piemonte, Emilia-Romagna e Marche hanno deliberato sostegni specifici al parto in casa, con parziale rimborso dei costi per l’assistenza e a fronte di condizioni sociali e cliniche ben selezionate. 

 

(T.C.)