I pericoli per l’ambiente
L’impatto ambientale delle attività di estrazione e prospezione per l’individuazione di idrocarburi rappresenta sicuramente il principale timore dei sostenitori del “sì” al referendum del prossimo 17 aprile. Il pericolo principale è rappresentato dai potenziali incidenti, con il pensiero che corre subito al disastro del 2010 del Golfo del Messico; in realtà, però, anche una piccola perdita di petrolio potrebbe rivelarsi pericolosissima per un bacino chiuso come quello dell’Adriatico, con conseguenti danni per le numerose aree a vocazione turistica che ne fanno parte.
Nel referendum, però, c’è in gioco maggiormente il gas il quale, seppur meno impattante e sporco, resta comunque un fossile e bruciare le fibre fossili significa liberare CO2, contribuendo al surriscaldamento globale e al cambiamento del clima. Secondo i dati di uno studio elaborato dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per conto dell’Eni, e resi noti da Greenpeace, i sedimenti e i mitili che si trovano nei pressi delle piattaforme presenterebbero la presenza di metalli pesanti, idrocarburi e sostanze tossiche e cancerogene che posso intaccare la catena alimentare.
Inoltre, fa sempre discutere l’air gun, tecnica utilizzata per le prospezioni e consistente in cariche esplosive di aria compressa lanciate in profondità, le quali è stato dimostrato hanno effetti deleteri sulla fauna marina, con rischi di spiaggiamento di pesci e negativi effetti sulla pesca. La Sicilia, in particolare la rada di Augusta, ne ha pagato in termini anche di salute e vite umane.
Indipendenza energetica e royalties: solo miraggi economici
Il Governo italiano considera strategica l’estrazione di petrolio e idrocarburi che, in teoria, dovrebbe garantire all’Italia l’indipendenza energetica. A questa prospettiva il fronte del “sì” risponde con i numeri: le piattaforme operanti nell’estrazione di gas interessate dal referendum producono oggi solo il 3% del fabbisogno nazionale, mentre scende addirittura allo 0,8% il contributo fornito dalle piattaforme petrolifere. Cifre quindi irrisorie che non comporterebbero nessun vantaggio concreto e che, anzi, secondo il pensiero di alcuni rami a favore del “sì” potrebbero quantificare un rapporto costi-benefici molto sbilanciato a danno dei cittadini italiani.
Dal punto di vista economico, gli ambientalisti ridimensionano anche il guadagno proveniente dalla royalties: ben il 75% delle compagnie proprietarie delle piattaforme non pagano le royalties allo Stato; questo perché estraggono una quantità di materiale inferiore alla soglia minima oltre la quale è invece previsto il pagamento. Come se ciò non bastasse, l’Italia è tra i paesi europei che chiede la percentuale di royalties più bassa: si aggira intorno ai 300 milioni di euro la cifra che lo Stato incasserebbe se vincesse il “no”, una cifra irrisoria rispetto al giro d’affari di cui si avvantaggerebbero le compagnie petrolifere. Scordiamoci anche un abbassamento del prezzo del carburante alla pompa di benzina, senza contare la bassa qualità del petrolio estratto dai nostri fondali che, anziché essere destinato a produrre carburanti, verrebbe utilizzato per altri usi industriali (ad esempio per la produzione di bitume o oli lubrificanti).
La chimera dell’occupazione
I contestatori del referendum spingono per il “no” (o per l’astensione) perché a loro parere sarebbero a rischio numerosi nuovi posti di lavoro. Una tesi contestata dal fronte “No Triv”: non sarebbe infatti particolarmente alto il numero di persone occupate nell’industria del petrolio e degli idrocarburi. Le più grandi società operanti nel settore, infatti, solitamente possono impiegare circa 50mila persone e i siti produttivi possono essere controllati da pochi addetti. Conseguentemente, sembra molto plausibile che le compagnie proprietarie delle piattaforme preferiscano continuare a servirsi dei propri dipendenti e delle proprie maestranze già esperte e qualificate.
I posti di lavoro garantiti agli italiani sarebbero quindi limitati a poche migliaia, un numero sicuramente da tenere in considerazione ma che secondo il fronte del “sì” farebbe da contraltare alla perdita di molti più posti di lavoro in altri settori. Il riferimento è al turismo e alla pesca, le attività economiche che potrebbero subire gli effetti più negativi dal lavoro delle piattaforme: i rischi legati all’inquinamento e i pericoli corsi dalla fauna marina potrebbero compromettere la sopravvivenza di due comparti, il turismo e la pesca appunto, di cui vivono le aree del Mediterraneo. E l’esempio più importante resta quello della Sicilia. Poche migliaia di posti di lavoro che invece il settore delle energie rinnovabili promette in numero notevolmente più alto.
Alessandro Chizzini